La scalinata dei diritti civili

1 Febbraio 2016
 ROBE5581
Giulia Balzano

23 gennaio 2016 – ore 14.30. Scalinata monumentale della Basilica di Bonaria, Cagliari. Emma ha dieci anni. Trenta circa meno di me. E si vede. Lo raccontano le sue gambe, che affrontano l’inizio della scalinata con uno slancio che so non potrò emulare. Ne sorrido e mi avvio a mia volta, sbilanciata dall’ingombro di una custodia cilindrica caricata sulle spalle. Emma non sembra accorgersene, si beve in un soffio la prima rampa di gradini. Le sono dietro con relativa disinvoltura. È una giornata di fine gennaio di un colore grigio diffuso. Non piove, e non pioverà. Sono le due e mezza, la scalinata è animata da poche persone. “Cosa facciamo qui?”, mi chiede Emma, senza voltarsi. “Aspettiamo che le lancette dei nostri orologi arrivino alle quattro e mezza precise, e facciamo suonare la sveglia”. Emma si ferma alla fine della seconda rampa. “Cosa vuol dire?”, mi chiede. “Se rallenti, ti spiego”. Ma Emma non rallenta, riparte con una rapidità che in proporzione io perdo. Siamo solo a metà della salita.

Sai quanti gradini ci sono, dai piedi del colle fino alla sua cima?”. La domanda, un poco urlata alle sue spalle, sortisce l’effetto sperato. Emma rallenta e si fa raggiungere. “Li hai contati?” mi chiede. Mi siedo su un gradino, senza sfilare la custodia dalle spalle. “Sono 91. Non uno di più, non uno di meno, fino alla strada. Sono più o meno tanti quante le città italiane in cui oggi, da Udine a Catania,  le persone si riuniranno in una piazza, lungo un viale, su una scalinata monumentale, come qui a Cagliari, e alle quattro e mezza precise faranno suonare la loro sveglia. Oggi è un giorno importante per la comunità civile del nostro paese”. Anche Emma si siede. I suoi occhi ora sono interrogativi: “Perché?”, mi chiede. “I prossimi giorni, in Senato, verrà discusso un documento che si chiama disegno di legge – è una bella immagine, non trovi? restituisce l’idea che le leggi si disegnino, con cura, come fossero un ritratto – peccato somiglino così poco, spesso, alle donne e agli uomini cui dovrebbero riferirsi… Le senatrici e i senatori della Repubblica italiana si esprimeranno a favore o contro un progetto di legge, la cui prima firmataria è una donna, Monica Cirinnà”. Emma è perplessa e lo esprime: “Non capisco perché per il voto di una legge, si debba scendere in strada a suonare la sveglia”. Già, perché. “Nel nostro paese ci sono tante persone – donne, uomini, bambine e bambini – che da un tempo lunghissimo aspettano che chi ci governa elabori delle leggi a tutela dei loro diritti civili. Ma queste leggi tardano, tante volte si è lavorato per arrivare alla loro approvazione e sempre sono state ostacolate e rimandate. Oggi queste persone hanno deciso di suonare la sveglia. La sveglia è un simbolo: suona per interrompere il sonno, per scuotere chi dorme. Oggi nelle piazze d’Italia si urla tutti e tutte insieme: basta restare imbambolati!”.

Emma rimane per qualche secondo in silenzio. “Cosa sono i diritti civili?”. “Sono quelle condizioni fondamentali, irrinunciabili e inviolabili che ogni cittadino e ogni cittadina di uno Stato dovrebbe avere garantiti perché ciascuno e ciascuna possa vivere la propria libertà e possa realizzarsi pienamente, senza subire discriminazioni ed esclusioni, in reciproca uguaglianza di possibilità”. Guardiamo insieme il mare, che ha lo stesso colore del cielo e la cui linea all’orizzonte sembra confondersi. “Chi sono queste persone che aspettano?”, mormora Emma. “Sono le persone che vorrebbero unirsi in matrimonio e non possono farlo, perché ancora non esiste nel nostro paese una legge che lo permetta: sono le lesbiche e gli omosessuali, sono le coppie omoaffettive che non hanno mai avuto la possibilità di ottenere civile riconoscimento e conseguenti, reciproche tutele. Sono i loro bambini e le loro bambine, tutte le figlie e i figli dell’amore tra due donne o due uomini, che ogni giorno nascono, crescono, frequentano le scuole, festeggiano i compleanni tra i coetanei e le coetanee, sognano di diventare astronaute o veterinari, e per la legge sembrano non avere una famiglia”. I moli del porto di Cagliari, sullo sfondo, ipnotizzano i nostri sguardi, somigliano a due braccia aperte. È Emma che lo dice, e parla di accoglienza. “È come se questo posto fosse un luogo di abbracci. È per questo che è stato scelto?”. Mi piacerebbe dirle che è così, ma non ne sono sicura. Glielo confesso, senza cedere a nessuna bugia consolante. “Potremmo immaginarci che sia così come dici. Qualunque sia la ragione per cui oggi a Cagliari è stato scelto questo spazio per riunirci, noi potremmo immaginare di abitarlo come fosse il posto dell’accoglienza”.

Emma annuisce e si rimette in piedi, mi sollecita a proseguire: “Non sarai mica stanca?”, insinua con un sorrisetto. Lo sono, un poco – nelle gambe e non solo – ma non glielo confesserei per niente al mondo. Non confesserei a una bambina di dieci anni la stanchezza di aver abitato tanti luoghi di sperati abbracci, senza vederne accolto alcuno. Emma ha gambe secche e vivaci che meritano la fiducia che ora le anima. E merita la mia fiducia di donna adulta, che nonostante il disincanto, alimenta il proprio impegno e non asseconda la tentazione al silenzio. Ricarico la custodia sulle spalle e le vado dietro. Mi aspetta in cima, in piedi sull’ultimo gradino. Alle sue spalle la facciata in calcare della Basilica di Bonaria. “Non c’è ancora nessuno” dice Emma guardandosi intorno “perché siamo arrivate così presto?”. “Ho pensato che fosse bello assistere al momento in cui lo spazio si anima e si riempie, vedere le persone arrivare, poterle guardare quasi una a una, prima che la folla le inghiotta. Quando siamo in tanti e tante, stretti e strette nello stesso posto, perdiamo un poco del nostro per guadagnare un poco di chi abbiamo accanto. Diventiamo un’altra cosa, una specie di corpo unico, più grande, più forte. Ma dentro ogni gruppo di persone riunite, come dentro ogni organismo, ci sono le voci singole di donne e di uomini, e le loro storie, le loro speranze, le loro difficoltà e pure la loro rabbia. Le emozioni e le storie si somigliano, quando sono mischiate dentro la stessa piazza, ma non sono tutte uguali. Non devono esserlo, non devono far finta di coincidere. Sono esistenze vicine, vite che si sostengono reciprocamente, che subiscono a volte le stesse discriminazioni e le stesse esclusioni, ma che non smettono di essere la storia di ciascuna e di ciascuno”. Ci sediamo in cima alla scalinata, dando le spalle alla chiesa. “Ecco, Emma. Da dove sediamo è possibile osservare tutto questo, accorgerci delle differenze e di come possano convivere nel riconoscimento reciproco. Le persone arrivano, vedi? Come abbiamo fatto io e te. Ognuna porta qualcosa di diverso da ciò che io ho portato e che tu hai portato”.

La scalinata si riempie, poco per volta. Colori indossati, sventolati, dipinti sulla pelle del viso e delle braccia. Età e generi che si mischiano. Io e Emma rimaniamo sedute appena defilate, perse nel gioco dell’osservare che evidentemente rapisce entrambe con la stessa intensità. Viene srotolata la lunga bandiera arcobaleno dall’Associazione ARC di Cagliari, da oltre un decennio impegnata nel tenace lavoro di tutela e promozione dei diritti L.G.B.T.Q. Si allargano gli striscioni in rappresentanza delle numerose altre associazioni che aderiscono e sostengono la manifestazione. “Arriveranno anche mamma e papà?” mi domanda Emma a un certo punto. “Lo faranno, sì”. Sembra esitare, mentre segue con gli occhi i palloncini colorati dell’Associazione Famiglie Arcobaleno, le bambine e i bambini che li stringono. “A cosa pensi, Emma…”. “Non lo so con precisione. Mi sento strana. Penso a mamma e a papà che faranno suonare la loro sveglia, anche se non direttamente a difesa dei loro diritti, già garantiti. Penso a me, che non mi sono mai dovuta preoccupare di portare in giro un palloncino colorato per raccontare al mondo che la mia famiglia esiste ed è fatta d’amore. Penso a te, che hai voluto che venissi qui, oggi, hai diviso con me le tue parole e ora passi con me questo tempo, sedute a guardare la scalinata che si riempie, anche se sono già arrivate le tue compagne con gli strumenti e tu dovresti raggiungerle per prepararvi”. Emma parla senza fermarsi, come la abitasse un’urgenza che le fa corrugare la fronte. “Io non capisco perché l’amore fa paura”. “Forse a fare paura è la libertà”, la mia voce è calma “la libertà nell’amore e nell’amare. Da sempre, nella storia dell’umanità, si è tentato di mettere alla catena la libertà dei sentimenti e la loro capacità sorprendente di prendere innumerevoli e diverse direzioni”.

Arrivano la madre e il padre di Emma. Si tengono per mano. Emma si solleva sulla punta delle sue scarpe da ginnastica. Mi da’ un bacio sulla guancia, mi dice: “Suona forte”. Poi sparisce tra la gente, agitando un poco la mano. Io apro la custodia, estraggo la mia tamburA – femmina come è femmina la terra e l’aria che battiamo. Mi muovo a fatica tra le persone che riempiono la scalinata dalla cima ai piedi, discendo i gradini fino a raggiungere le felpe rosse delle compagne. Voci e sorrisi ovunque attorno. Siamo oltre un migliaio. Siamo tante e tanti, siamo abbastanza, siamo quelle e quelli che abbiamo voluto e potuto esserci. Non serve il calcolo esatto, né l’esatta proporzione. Serve che alle quattro e trenta di questo pomeriggio si ricordi a chi l’ha dimenticato, e a noi stesse e noi stessi per primi, che non può chiamarsi libero un Paese che non sia in grado di assumersi la responsabilità della libertà e del riconoscimento dei diritti di ogni sua cittadina e cittadino, e di ogni bambina e di ogni bambino che in esso vive, cresce e diventa ogni giorno ciò che vorrà diventare.

Foto di Roberto Pili

2 Commenti a “La scalinata dei diritti civili”

  1. Maria scrive:

    Bel romanzo. Scritto bene. Quasi una fiaba. Nulla si vero perché si basa su una grandissima bugia: l’esistenza di bambini con due mamme e due papà. Menzogna. Tutti abbiamo una mamma ed un papà. Andare a commissionare bambini con lo sperma mischiato di due uomini o utilizzando quello di un donatore nel caso si tratti di due lesbiche, non cancella la verità. Prima o poi quel bambino vorrà sapere di chi è realmente figlio, conoscere le sue origini. Così come avviene con i figli adottivi. Perché a quella domanda bisogna essere in grado di rispondere prima o poi. La step cild adoption è solo uno specchietto per allodole, come se ci fossero in Italia 100.000 bambini figli di un precedente matrimonio in attesa di essere adottati da un secondo genitore perché orfani. Balle. Certo, l’utero in affitto in Italia è proibito maapprovare la step child aadoption sarebbe il lasciapassare per ricorrervi all’estero e procedere all’adozione del nascituro in Italia. Peggio del nazismo. Quindi ripeto, articolo scritto bene grammaticalmente parlando, ma falso nel suo contenuto. Su una bugia così grande non si potrà mai costruire una società migliore.

  2. Barbara scrive:

    Maria, quando si commenta un articolo si deve avere la decenza o almeno l’intelligenza di conoscere l’argomento in questione. Il suo riferimento al nazismo è completamente scollegato e inappropriato al discorso che stava cercando di portare avanti. Detto questo, in un contesto europeo, che da tempo invita i paesi dell’unione ad adeguarsi per “garantire alle famiglie monoparentali, alle coppie non sposate e alle coppie dello stesso sesso parità di diritti rispetto alle coppie e alle famiglie tradizionali, in particolare in materia di legislazione fiscale, regime patrimoniale e diritti sociali”, l’Italia ha il diritto e il dovere di farlo. Non si tratta di essere o no d’accordo, di essere cattolici, di destra o di sinistra. Si tratta di adeguare le leggi al normale sviluppo della società, che negli anni ha subito diversi cambiamenti. Si tratta di omologarsi ad un Sistema Europa che ci guida e ci invita a guardare in faccia la realtà che ci circonda. Quello che rende i bambini felici non è la famiglia tradizionale ma è l’amore che i bambini ricevono nel contesto della famiglia che li genera o li adotta e che li fa crescere. L’amore non ha colore né sesso ed è l’unico valore in grado di trasformare i bambini in uomini e donne adulti e responsabili. Una società formata da uomini e donne, adulti e responsabili è una società in grado di costruire un futuro migliore per tutti noi.

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