Triangoli rossi
1 Febbraio 2016Gianfranca Fois
Anche quest’anno il 27 gennaio c’è stata la commemorazione della Giornata della Memoria in ricordo del 27 gennaio 1945 quando un reparto della LX Armata del generale Kurockin dell’Armata Rossa arrivò al campo di sterminio di Auschwitz.
Dopo i primi anni ricchi di incontri, dibattiti, cerimonie ufficiali e inaugurazione di monumenti alla Memoria, la data sembrerebbe perdere sempre più interesse e significato. In realtà è cambiato l’approccio, le iniziative sono portate avanti nei territori, con quanto di positivo, ma anche di negativo ciò comporta.
E’ positivo l’impegno dei Comuni, delle associazioni e delle scuole nel cercare momenti di conoscenza e riflessione che coinvolgano strati ampi di popolazione, fuori da discorsi ufficiali spesso retorici, come dimostrano gli avvenimenti di questi mesi. Negativo perché da una parte si corre il rischio di banalizzare questa enorme tragedia, dall’altra la realizzazione di questi momenti di incontro e di consapevolezza rischia di essere in balia delle istituzioni locali e dipendere dalla sensibilità o mancanza di sensibilità degli amministratori.
Anche per quanto riguarda le forme materiali della memoria si assiste a un cambiamento, si stanno diffondendo sempre più forme meno spettacolari dei memoriali sin qui costruiti, si vedano ad esempio le “pietre di inciampo”, piastre di ottone delle dimensioni di un sanpietrino, discrete, anti-gerarchiche e in progress. Si mettono davanti ai portoni e agli ingressi dove sono stati catturati coloro che furono deportati dai nazisti per ricordarli e per restituire loro la dignità di persone che i loro aguzzini avevano cercato di eliminare. Riportano solo il nome della vittima, la data di nascita, di deportazione e di morte. L’iniziativa ha suscitato anche polemiche ma, nella solo Berlino ce ne sono circa 6.000 e l’idea si sta diffondendo in tutta Europa e in Italia.
Altro aspetto significativo è che nei primi anni l’interesse si è incentrato soprattutto sulla Shoà, lo sterminio sistematico degli Ebrei, nonostante gli articoli 1 e 2 della legge che nel 2000 ha istituito la giornata della memoria citino anche i deportati militari e politici italiani. Ma nei campi di concentramento e di sterminio sono morti migliaia di non Ebrei: Rom e Sinti, Slavi perché considerati appartenenti a “razze” inferiori, omosessuali e altri così detti “deviati” le cui tragedie solo oggi vengono ricostruite. Una categoria poco conosciuta è quella dei “politici”, i così detti triangoli rossi, in gran parte partigiani, comunisti e socialdemocratici. In Italia sono stati circa 23.286 i politici deportati su circa 40.000 connazionali che hanno subito la deportazione nazifascista.
Eppure ancora nel 2013 l’Aned (Associazione nazionale ex deportati politici nei campi nazisti) si trovava costretta a inviare al Ministero dell’istruzione una lettera per sottolineare che nell’organizzazione di corsi di aggiornamento per insegnanti per il giorno della memoria i deportati politici non venivano citati. Per questo motivo lo scrittore di lingua slovena Boris Pahor ha pubblicato l’anno scorso il volume “Triangoli rossi. I campi di concentramento dimenticati” in cui partendo dalla sua esperienza personale di deportato politico analizza i vari campi nazisti e fascisti.
Erano i campi di concentramento ad accogliere i politici, non quelli di sterminio. Ma la mortalità era ugualmente alta per le uccisioni e le esecuzioni arbitrarie, per gli inutili, dolorosi e spessissimo letali esperimenti medici, per le condizioni inumane, gli stenti, la denutrizione, il duro lavoro. Campi in cui furono deportati numerosi politici, oltre a quello più famoso di Mauthausen- Gusen furono quelli di Dora Mittelbau e di Natzweler.
Il primo campo fu aperto in Turingia vicino a Weimar per nascondere le armi segrete di Hitler (fra cui i missili V2 di Von Braun) in caverne nel massiccio di Sudharz dove i deportati costruirono un sistema di tunnel e gallerie. La durata giornaliera del lavoro, durissimo, era di 12-16 ore cui si aggiungeva il tempo di percorrenza dalle baracche e degli appelli. In 20 mesi di funzionamento del campo su 138.000 deportati persero la vita in 90.000. Nonostante ciò furono messi in essere vari tentativi di sabotaggio che ritardarono la costruzione delle armi o che le resero imperfette.
Nel campo di Natzweiler situato nei Vosgi a 800 metri, dove prima gli abitanti della vicina Strasburgo andavano a sciare, i prigionieri lavoravano in officine della Daimler-Benz, della Heinkel, della Krupp e della Adler. Sulla schiena dei deportati venivano dipinte due N (Nacht, notte, e Nebel, nebbia), quasi un “augurio” di completa sparizione. Anche qui venivano compiute “ricerche” sui deportati in particolar modo su gas letali e sul tifo e la sterilizzazione.
A differenza di quanto accade in Italia, dopo la fine della guerra i Francesi hanno voluto onorare quanti erano morti per la libertà e hanno reso questo campo Necropoli Nazionale di tutti i cittadini morti nei campi nazisti. Vi è annesso un Memoriale e un centro studi. Poco prima dello sgombero del campo era stato scoperto un movimento di resistenza clandestino “Alliance”. Duecento furono impiccati, in maggioranza francesi.
Esempi di resistenza attiva che in questi nostri tempi bui e difficili dovrebbero essere conosciuti.