Il labirinto del silenzio
1 Marzo 2016Claudio Natoli
Questo film ci parla del primo grande processo da parte della magistratura della Germania federale contro un gruppo di 22 affiliati alle SS che prestarono servizio nel campo di sterminio di Auschwitz.
Esso fu celebrato a Francoforte sul Meno tra la fine di dicembre 1963 e l’agosto 1965. In precedenza vi erano stati altri due processi, il primo dei quali aveva riguardato il comandante del campo Rudolf Höß, ma essi avevano avuto luogo in Polonia nel 1947. E’ bene premettere che si trattò di una svolta epocale nella storia della giustizia, ma per certi aspetti anche della storia più generale della Bundesrepublik. Il processo non solo segnò la fine dell’inerzia, se non dell’indulgenza, di gran parte della giustizia e degli organi di polizia nei confronti dei responsabili dei crimini nazisti che aveva contrassegnato l’era Adenauer, ma aprì anche la strada a una assunzione di responsabilità da parte delle istituzioni, alla formazione di un nuovo “senso comune” nella pubblica opinione e a un impegno per l’affermazione di una “coscienza critica” del passato nazista come parte integrante dell’identità democratica della Germania federale.
Tutto questo ci porta a riflettere sui limiti macroscopici del processo di denazificazione che, a differenza che nella Repubblica democratica tedesca, aveva accompagnato la nascita e il primo decennio della Bundesrepublik. Questo percorso era stato per la verità avviato dagli Alleati vincitori nel 1946-47 con il grande processo di Norimberga intentato contro i vertici del Terzo Reich che non erano riusciti a sfuggire alla giustizia e con la prima fase delle commissioni di epurazione degli iscritti al Partito nazista. Questi due ambiti avrebbero dovuto coniugarsi con l’auspicata “rinascita democratica” seguita alla disfatta e all’”ora zero” del 1945. In realtà questa fase, ancora influenzata dal clima di collaborazione della Grande alleanza antifascista, aveva avuto una troppo breve durata.
L’irrompere alla metà del 1947 della “guerra fredda” aveva comportato la divisione dell’Europa e segnatamente la nascita in Germania di due Stati con sistemi politici e sociali contrapposti e avrebbe fatto della Germania federale la punta avanzata del “campo occidentale” guidato dagli Stati Uniti e della lotta contro l’URSS e il comunismo internazionale: proprio quest’ultima diveniva ora la priorità assoluta rispetto alla “resa dei conti” con il regime nazista. Si veniva così a creare il clima più favorevole perché la transizione alla Repubblica parlamentare coesistesse con forti elementi di continuità con il passato nazista nello Stato e nella società. Il blocco dominante delle grandi imprese, già colonna portante del Terzo Reich, rimase sostanzialmente intatto, mentre negli apparati amministrativi, nella giustizia, nella polizia, nelle ricostituite forze armate, nella scuola e nelle università venne reintegrata la grande maggioranza del personale che aveva fatto il proprio iter professionale durante il regime.
Tutto ciò comportò un clima generale di cancellazione o di rimozione del più recente passato che investì non solo il nazismo ma la stessa Repubblica di Weimar, alla cui “ingovernabilità” e ai cui conflitti tra i partiti, oltre che al peso schiacciante della pace di Versailles, si tendeva ad attribuire la responsabilità dell’avvento al potere di Hitler, cancellando le corresponsabilità delle élites del potere economico, dei vertici burocratici e militari, i silenzi delle Chiese e anche gli alti livelli di adesione plebiscitaria al regime, e presentando il popolo tedesco senza distinzioni di ceti e di classi come vittima inconsapevole di Hitler e dei suoi più stretti collaboratori.
La figura del cancelliere Adenauer e la cultura politica di segno cristiano-cosnservatore con forti tratti autoritari persino antecedenti il 1914 che egli impersonò non potrebbero meglio evocare il “clima spirituale” dominante in questi anni nella Bundesrepublik. La damnatio memoriae della storia di Weimar andava di pari passo con l’espunzione del nazismo dalla storia tedesca e con la sua identificazione con la “figura demoniaca” di Hitler, con un processo duplice di autoassoluzione e di vittimizzazione del popolo tedesco. Non deve sorprendere allora se a ciò facesse riscontro nella società civile e in consistenti ambiti dell’opinione pubblica un’immagine retrospettiva quanto meno ambivalente, se non benevola, del regime nazista come dimostrano alcuni impressionanti sondaggi dell’Istituto Allenbach. A ciò è importante ricondurre anche quel clima di disaffezione politica, di chiusura in un “privato senza storia”, per dirla con Jürgen Habermas, che accompagnò in larghi strati della popolazione tedesca il “miracolo economico” seguito alla ricostruzione. E’ non è certo irrilevante notare che proprio il “miracolo economico” sia stato il principale veicolo di costruzione del consenso attorno alle nuove istituzioni, come è testimoniato tra l’altro mirabilmente dai romanzi di Heinrich Böll.
Ma torniamo alla delicata questione della denazificazione in questi anni. A partire dal 1950 la competenza dei procedimenti giudiziari sui crimini nazisti passò direttamente alla magistratura tedesca, al cui interno era stata reintegrata la grande maggioranza del personale che aveva prestato servizio nell’ambito del passato regime, ivi compresi i giudici che avevano preso parte ai Tribunali speciali e che avevano comminato decine di migliaia di condanne a morte e avevano ripreso senza intralci le loro carriere, così come innumerevoli funzionari di polizia già appartenenti alle SS, alla polizia d’ordine e alla polizia criminale. L’altro aspetto da considerare è costituito dalle carenze delle normative giuridiche. Lungi dall’aggiornare i codici penali all’abnormità dei crimini perpetrati dal nazionalsocialismo, come era avvenuto al processo di Norinberga con la codificazione dei “crimini contro l’umanità”, la magistratura della Bundesrepublik continuò a fare riferimento al codice penale tedesco approvato nel 1940. Esso prevedeva che il massimo della pena potesse essere comminato solo per omicidio volontario aggravato da “motivi abbietti” o da “modalità efferate”: ma ancor più grave era la distinzione tra l’autore volontario dell’atto e il complice che favoriva l’atto ma non agiva di propria iniziativa, poiché si limitava ad eseguire gli ordini da parte di autorità che continuavano a essere considerate legittime, cosicché gli imputati venivano perseguiti perlopiù soltanto per “concorso in omicidio”.
Il complesso di questi fattori, nel periodo che va dal 1950 al 1958, può aiutare a comprendere la sostanziale rinuncia della magistratura ad avviare una ricerca sistematica dei responsabili dei crimini nazisti, la drastica rarefazione dei procedimenti giudiziari e la tendenza a limitarli a “casi individuali” estrapolati dal loro contesto storico-sociale, e infine l’impressionante indulgenza delle sentenze (si pensi che in questi anni in soli tre casi venne comminato l’ergastolo e solo in 9 si procedette a condanne superiori ai 10 anni). Come ha scritto Christopher Browning, anche in eventi riguardanti omicidi di massa di ebrei e di civili, nella maggior parte dei casi si stabilì che i veri responsabili erano Hitler, Himmler e Heydrich e che gli imputati avrebbero potuto essere perseguiti solo per “concorso” o come semplici esecutori di ordini, e ciò anche a prescindere dalla casistica estremamente generosa delle attenuanti che venivano concesse e che comportarono una serie abnorme di assoluzioni.
Da quanto sin qui esposto dovrebbe risultare più chiaro come mai il Processo di Francoforte, che mise alla sbarra 22 personaggi tutti silenziosamente reinseritisi nella vita civile, poté aprirsi solo alla fine del 1963, o anche quanto difficile e travagliata sia stata la relativa istruttoria e come esso abbia assunto il significato di una rottura pubblica del silenzio e di un vero e proprio tabù. Ciò che vorrei aggiungere, nei limiti di questa breve riflessione, è che tuttavia il processo non cadeva dal cielo. Come accade per una serie di grandi eventi che fanno la storia, esso fece emergere in piena luce un insieme di fenomeni all’inizio sotterranei che prefiguravano quel risveglio della società civile e quei percorsi di rinnovamento politico e culturale che avrebbero caratterizzato nella Repubblica federale gli anni‘60 e che avrebbero portato al tramonto dell’era Adenauer e sarebbero sfociati nel 1969 nella svolta elettorale e nel cancellierato di Willy Brandt.
La dinamica di questi eventi si avvierà non a caso alla fine della fase più acuta della guerra fredda, nella incipiente distensione fra i blocchi e nel parallelo svilupparsi in crescenti settori della cultura e della società tedesca, nonché all’interno dei partiti, delle associazioni e delle stesse istituzioni, di una spinta ad “osare più democrazia”: il che, nella Bundesrepublik, significava anzitutto una riappropriazione critica del passato nazista. In questo senso il Processo di Francoforte è da vari punti di vista un caso emblematico. Le sue origini vanno fatte risalire al 1958 quando, per iniziativa dei ministri della Giustizia dei Länder (non già da parte del governo federale di Adenauer), nonché di alcuni magistrati più illuminati, si procedette alla costituzione della Centrale Stelle zür Aufklärung von Nazionalsozialistischen Verbrechen con sede a Ludwigsburg.
Con questo Ente si costruì per la prima volta una sede unica di raccolta di informazioni e di documenti, di confronto e di coordinamento tra tutti i procedimenti giudiziari in corso nei Länder, nonché un soggetto determinante ai fini dell’apertura di nuove istruttorie da parte dei Länder e di una loro sempre più ampia contestualizzazione storica. In questo senso di eccezionale rilievo fu il sempre più intenso coinvolgimento degli storici come parte integrante del lavoro istruttorio, cosicché per la prima volta l’agire degli imputati nelle situazioni determinate si collocava nel contesto delle loro interrelazioni e del sistema di dominio del regime nazista, con un impulso determinante all’arricchimento e al rinnovamento delle stesse tematiche e metodologie storiografiche in rapporto ai caratteri dello Stato nazista, al rapporto tra nazismo e società tedesca e tra nazismo e storia tedesca. Ma è importante sottolineare anche l’attività di ricerca e il ricorso alle testimonianze dei sopravvissuti e degli esponenti della Resistenza tedesca, che, ad eccezione di alcuni esponenti del fallito attentato ad Hitler del 20 luglio 1944, non avevano conosciuto alcuna valorizzazione nella Germania di Adenauer, perché costituivano una memoria scomoda.
Da tutti questi punti di vista la figura del procuratore Fritz Bauer appare emblematica. Di famiglia ebraica, iscritto alla SPD, magistrato già nel 1933, arrestato e rinchiuso in campo di concentramento, aveva fatto poi parte dell’emigrazione antinazista in Danimarca e in Svezia (un altro ambito, è bene precisarlo, ostracizzato nella Germania di Adenauer). Reintegrato nel 1949, Bauer era divenuto procuratore generale dell’Assia ed era stato, insieme con il suo collega Erwin Schule di Ulm, tra i protagonisti della costituzione della Centrale Stelle, di cui si è detto. Nel 1958 Bauer non solo aveva sostenuto l’incriminazione del primo dei futuri imputati nel processo di Francoforte, ma era risalito a ben 22 corresponsabili, unificando i procedimenti con l’apporto determinante dei pareri degli storici Hans Bucheim, Helmut Krausnich e Martin Broszat dell’Institut für Zeitgeschichte di Monaco.
Non meno rilevante fu l’impulso alla ricerca dei testimoni con il supporto determinante della associazioni dei perseguitati, a cominciare da quella guidata da Hermann Langbein, esponente della Resistenza, ex combattente in Spagna ed ex deportato ad Auschwitz. Proprio in virtù di questi rapporti privilegiati con i perseguitati e gli oppositori antinazisti Bauer ricevette da un ex deportato nei campi di concentramento lì residente, Lothar Hermann, la notizia che Adolf Eichmann aveva trovato rifugio in Argentina: notizia che egli trasmise direttamente ai servizi segreti israeliani, nel timore che qualcuno nella giustizia o nella polizia della Germania federale potesse mettere il criminale nazista sull’avviso (si noti per inciso che, anche dopo la sua cattura, il governo di Adenauer rinunciò a chiedere a Israele l’estradizione di Eichmann).
Concludo con alcune brevissime considerazioni sul film di Giulio Ricciarelli che abbiamo visto questa sera, e che a me sembra molto efficace e molto ben costruito. Certo, dal punto di vista strettamente storico, sarebbe forse stato preferibile attribuire il ruolo centrale a Fritz Bauer, piuttosto che al giovane procuratore, che è una figura di fiction. Le relative motivazioni si può ritenere risalgano al maggior impatto che questa scelta potrebbe esercitare su un pubblico di giovani di oggi. Tuttavia la scenografia è molto complessa e articolata e riesce con ottimi risultati a rievocare lo “spirito del tempo”. L’iniziale scetticismo o l’ostilità degli altri magistrati della procura, la renitenza o anche le connivenze delle autorità di polizia, i luoghi comuni autoassolutori, le rimozioni e il rifiuto di sensi di colpa di tanti “tedeschi comuni”, la disinformazione dei giovani (sarà questo uno dei motivi centrali della rivolta contro i padri degli studenti berlinesi del ’68), la pretesa di “non aver saputo” dei meno giovani, la stupefazione e l’arroganza degli imputati abituatisi all’impunità, il senso di solitudine dei magistrati inquirenti, i molteplici traumi (prima e dopo Auschwitz) dei perseguitati chiamati a testimoniare, le difficoltà e gli ostacoli per avviare il processo.
Anche Fritz Bauer spicca per la sua superiore sensibilità e consapevolezza, quando ammonisce il giovane procuratore che il problema storico di Auschwitz non era risolvibile nella figura demoniaca di Mengele, ma riguardava anche tutti coloro che non avevano saputo dire di no o avevano voltato la testa dall’altra parte: il che, piuttosto che quella dei presunti “mostri” di ieri, costituisce la vera grande questione storica su cui devono confrontarsi le generazioni di coloro che sono nati dopo, in particolare quelle dei nostri giorni. E tuttavia la disincantata considerazione di Fritz Bauer “quando esco dal mio ufficio mi sento in esilio”, si rivelerà infondata, almeno per il futuro. Come ha scritto Enzo Collotti, il significato storico del processo di Francoforte non risiede tanto nelle condanne inflitte, certamente insufficienti, quanto nel fatto stesso che fu celebrato. Esso avviò un percorso di crescita civile che coinvolse i mezzi di informazione, la cultura (si pensi al capolavoro di Peter Weiss, L’istruttoria, che uscì nel 1965), e per la prima volta, dopo la cesura dell’era Adenauer, incontrò un’opinione pubblica non indifferente od ostile, sensibilizzò le nuove generazioni e favorì una assunzione di responsabilità da parte delle istituzioni che, pur non senza ricorrenti problemi e contraddizioni, è giunta sino ai nostri giorni.
(Questo testo costituisce l’introduzione alla proiezione del film Il Labirinto del silenzio, di Giulio Ricciarelli, candidato all’Oscar per il miglior film straniero, svoltasi al Cinema Odissea di Cagliari il 20 gennaio 2016)