40° anniversario de La Giornata della Terra
1 Aprile 2016Omar Suboh
Come scrive lo storico israeliano Ilan Pappe nella prefazione alla sua opera La pulizia etnica della Palestina «dopo l’Olocausto è diventato quasi impossibile occultare crimini contro l’umanità su larga scala», di fatto con l’irrompere nel mondo moderno dei media elettronici e della comunicazione di massa, le grandi catastrofi prodotte dall’uomo non possono più essere nascoste.
Nel caso della Palestina invece non è stato così. Quotidianamente, infatti, assistiamo alla cancellazione dalla memoria pubblica mondiale del più grande crimine contro l’umanità, e mi riferisco all’espropriazione delle terre dei palestinesi da parte di Israele. Vediamo quali sono i dati relativi alle porzioni di terra contese: una terra, quella di Palestina, che si estende per 27.009 kmq, una superficie poco più grande di quella della Sicilia (25.708 kmq), ed una superficie solo in parte abitabile a causa delle ampie zone desertiche.
Come scrive lo storico Giorgio Gallo “quella palestinese era all’inizio del ‘900 una società rurale, in cui i fellahin costituivano delle comunità caratterizzate dalla proprietà comune della terra e dal possesso dei mezzi di produzione”. La comunità che possedeva la terra era quella dei residenti di un villaggio o quella della famiglia estesa. Nella stagione dell’aratura e della semina, la terra era divisa sulla base della capacità di coltivarla. La trasmissione ereditaria maschile della terra e del bestiame, fondamento della società, era garantita e custodita dalla memoria degli anziani del villaggio e dalle donne che avevano autorità nello svolgere un ruolo sociale di arbitrato su eventuali dispute sul diritto di pascolo o su un terreno.
La proprietà collettiva continuò ad essere maggioritaria in Palestina fino alla creazione dello stato di Israele nel 1948, e proprio da questa data ha inizio la grande catastrofe occultata, la nakba. Venne imposto dalla colonizzazione sionista un concetto di proprietà che produsse un effetto traumatico, non solo per le sue conseguenze materiali, ma perché destrutturava le antiche relazioni tra i nuclei sociali stanziali nelle campagne, costringendo ad esempio i beduini a deviare dalle tradizionali vie di comunicazione e di pascolo.
Per comprendere gli avvenimenti che ne seguirono è necessario porre l’accento sul ruolo che ebbe a questo proposito il Fondo Nazionale Ebraico (JNF), fondato nel 1901 e principale strumento sionista per la colonizzazione della Palestina. Il suo ruolo in origine era quello di una agenzia a servizio del movimento sionista per comprare le terre dei palestinesi sulle quali poi si sarebbero insediati gli immigrati ebrei (nel periodo di immigrazioni che va dal 1882 al 1902 e dal 1932 al 1939, con il termine aliyah). Ente che nel suo statuto si definiva come “esclusiva istituzione responsabile dell’acquisizione e della colonizzazione delle terre” nella Palestina storica.
L’organizzazione perseguì il proprio obiettivo attraverso il sostegno e i finanziamenti dei fondi provenienti dalle comunità ebraiche, francesi, inglesi, tedesche e americane. L’obiettivo era lo sfratto dei fittavoli palestinesi dalla loro terra, sostenuti da un apparato legislativo come la legge sulla “proprietà degli assenti” promulgata nel 1950 dal governo israeliano. Legge che consentì al governo di nominare una sorte di custode per le proprietà dei palestinesi, con particolare riferimento a coloro che erano fuggiti dalla guerra, sia fuori che dentro la Palestina, magari in un altro villaggio. Solo per questi vennero confiscati ben 300 mila ettari di terra.
La proprietà degli assenti prevede che la proprietà della terra possa decadere con “l’assenza del proprietario per un periodo prolungato”, pur quando le terre, gli orti e le abitazioni non si presentino in evidente stato di abbandono. Norme come queste, ereditate dal colonialismo britannico, consentirono a Israele di appropriarsi legalmente di tutte le abitazioni, delle terre e delle proprietà dei palestinesi fuggiti non solo durante le guerre del 1948 ma anche del 1967, la Guerra dei 6 giorni. Altri esempi in questo senso sono la legge del 1953 detta dell’utilizzo, che prevedeva la confisca della terra non coltivata e non lavorata (a discrezione del governo) senza l’intervento di alcun tribunale (con la confisca dei territori di Gerusalemme ad esempio, per il 26 per cento).
Nella prima fase di colonizzazione della terra di Palestina, un ruolo fondamentale fu giocato da David Ben Gurion, il quale guidò il movimento sionista dalla metà degli anni Venti fino ai tardi anni Sessanta. Gurion parlava già all’epoca di «grossa fetta di Palestina», in una mappa del territorio che distribuì a tutti coloro che avevano un ruolo nel futuro della Palestina occupata. Questa mappa, databile 1947, delineava già uno Stato ebraico che anticipava quasi ai minimi dettagli l’estensione d’Israele prima del 1967, cioè di una Palestina senza la Cisgiordania e la Striscia di Gaza.
Questa informazione è di cruciale importanza, perché confuterebbe l’affermazione consolidata dalla narrativa dominante di una opposizione dei palestinesi ai piani di spartizione Onu del 1947 e della sua Risoluzione da parte dell’Assemblea Generale, come motivo determinante per le sorti dello Stato Palestinese.
L’obiettivo sionista dunque, si configura come volontà di dominio e di sottomissione dei territori palestinesi già prima delle Risoluzioni e delle mediazioni internazionali. L’acquisizione della terra di Palestina è precedente agli anni della nascita dello stato di Israele, già nel ‘900, il già citato Fondo Nazionale ebraico raccoglieva fondi per l’Eretz Israel. Nel 1947 le proprietà ebraiche coprivano il 6,6% della Palestina (ben 1.734 Kmq), di cui oltre la metà era posseduta dal Fondo Nazionale Ebraico.
Nel 1948, successivamente alla proclamazione dello Stato di Israele, la legge della terra desolata consentiva di confiscare la terra rimasta senza coltivazione per un anno, e in questo modo la maggior parte della terra di Galilea passò dai palestinesi ai kibbutz israeliani. La nakba del 1948 ebbe conseguenze terribili, ben 400 villaggi furono svuotati della sua popolazione e distrutti e con il massacro di Deir Yassin furono uccisi 250 arabi.
Prendeva inizio la pulizia etnica della Palestina e il suo progetto politico di apartheid nei confronti delle popolazioni locali. Il “trasferimento forzato”, per usare le parole di David Ben Gurion, condusse all’espulsione sistematica e premeditata della popolazione palestinese, come affermato dallo storico ebreo Norman Finkelstein. Il piano di appropriazione complessiva proseguì ininterrottamente attraverso lo sfruttamento delle risorse idriche, motivo fondamentale per la colonizzazione, in quanto “elemento essenziale per la sopravvivenza”.
Nel 1967, con la Guerra dei Sei giorni Israele occuperà la Cisgiordania e la Striscia di Gaza, il Sinai e il Golan; annette Gerusalemme Est; vengono sottratti 54 km quadrati alla Cisgiordania, appropriandosi dei due terzi di essa e del 40% della Striscia di Gaza. Passando per il Settembre Nero del 1972, per gli attacchi ai palestinesi residenti in Libano nel 1973 e ulteriori risoluzioni Onu, il 30 marzo 1976 un gruppo di manifestazioni organizzate dai palestinesi residenti in Israele sono violentemente represse dall’esercito sionista con 6 morti, presso 3 località: Sachnin, Arraba e Deir Hanna.
La conseguenza principale di questa sollevazione fu la decisione da parte delle autorità israeliane di espropriare alcuni terreni agricoli appartenenti alle popolazioni locali per scopi militari. Ecco la Giornata della terra (Yam al-Ard), festeggiata come giornata storica per la resistenza palestinese. Per la prima volta infatti le autorità israeliane si trovarono di fronte a uno sciopero generale e a una serie di proteste diffuse dalla Galilea al deserto del Negev. La reazione fu violenta, con decine di arresti e di feriti, oltre i martiri già citati.
Parafrasando il filosofo britannico Bertrand Russell nel suo pezzo Contro l’ipocrisia, Israele “interpreta il ruolo tradizionale della potenza imperialista” perché ogni sua azione è volta a consolidare ciò di cui si è già impadronita con estrema violenza, e ignorando le ingiustizie di ogni aggressione precedente. Le centinaia di migliaia di profughi che circondano la Palestina, ma non solo, rappresentano “la macina morale appesa al collo dell’ebraismo mondiale”. Viene naturale chiedersi, prosegue il filosofo, quale altro popolo sulla terra accetterebbe di essere espulso in massa dalla propria patria: nessuno.
Il peccato originale della tragedia ebraica non è sufficiente per perpetuare le sofferenze dei palestinesi, di fatto però questo condiziona ogni possibile confronto alla radice, a prescindere da qualsiasi evento accaduto successivamente al dramma della Shoah, che viene strumentalizzato spudoratamente dal governo israeliano da prima ancora dell’occupazione dei territori palestinesi, come ben documentato nel libro L’industria dell’Olocausto dello storico ebreo Norman Finkelstein.
La questione palestinese non può essere ridotta a una delle tante contese che tengono vivo il focolare delle motivazioni politiche di una parte a un’altra contrapposta e alla pari, ma diviene la questione, per usare le parole di Frank Barat essa è “è l’epitome del male nel mondo”. La stessa guerra infinita del Medio Oriente non è altro che una precisa conseguenza diretta dell’occupazione sionista e della destabilizzazione sistematica e permanente dei territori della Palestina storica. Per citare Russell: «fino a quando il mondo tollererà lo spettacolo di questa sfrenata crudeltà?”».
1 Aprile 2016 alle 11:31
Interessantissimo e puntuale articolo che traccia una prospettiva, per me nuova, sullo svolgersi degli accadimenti inerenti il rapporto con la terra della popolazione palestinese e israeliana. Ignoravo che prima del 1948 esistesse una proprietà colletiva e condivisa della Terra da parte della popolazione palestinese e le modalità con le quali sia stata sistematicamente e costantemente violata dal sistema israeliano.
La chiamano: “terra santa”.
Il mio augurio è che questo articolo, ricco di fertili spunti di riflessione, possa gettare un seme per far sorgere e crescere interrogativi sul sistema socio-economico-politico israeliano imperante e per donare nuova consapevolezza e responsabilità riguardo le scelte che noi tutte-i facciamo nella quotidianità, anche solo nell’acquisto di un prodotto commerciale e delle ricadute che può avere a livello politico, economico e sociale.
Interroghiamoci.
Grazie a Omar Suboh per l’interessantissimo articolo.