Antisionismo non è antisemitismo
16 Maggio 2016Gianfranca Fois
L’antisionismo non è antisemitismo anche se l’equazione viene propagandata dal governo israeliano e dai suoi seguaci di fronte alla presa di coscienza da parte di sempre più numerosi cittadini europei e di altre parti del mondo dell’attività prevaricatrice e razzista israeliana nei confronti dei Palestinesi.
E’ una presa di coscienza che sta scatenando anche nei media in grandissima parte compiacenti l’accusa di antisemitismo verso chi si proclama antisionista, basta vedere come esempio la vicenda di alcuni laburisti inglesi. Eppure sono sempre più numerosi gli Ebrei che si considerano antisionisti. Cerchiamo di chiarire, anche se in modo schematico, che cosa sia il sionismo.
L’idea che sta alla base del sionismo, il “ritorno alla terra promessa”, si diffonde in Gran Bretagna nei primi decenni del secolo XIX in ambienti politici liberali. Non si trattava di un’idea nuova, infatti già Napoleone I aveva proposto un insediamento ebraico nella parte occidentale della Palestina, ma ben presto si diffuse soprattutto nell’Europa centro orientale fra gli Ebrei vessati da discriminazioni, violenze e pogrom.
Si creò quindi un progetto colonialista che prevedeva l’eliminazione o l’allontanamento di chi abitava già quei territori e la loro sostituzione con Ebrei provenienti soprattutto dall’Europa. Parola d’ordine del movimento fu “Una terra senza popolo per un popolo senza terra” Ma in realtà la Palestina era già abitata dai Palestinesi, aveva importanti attività economiche, una ricca vita culturale (14 quotidiani, tanto per citare un solo dato), e comunità ebree che vivevano indisturbate. Nonostante ciò la propaganda israeliana continua a descriverla come una terra povera, abitata da beduini rozzi. Allo stesso tempo i nuovi abitanti non avevano le caratteristiche di un popolo ma provenivano da migliaia di comunità ebraiche che ben poco avevano in comune.
Alla fine della seconda guerra mondiale e dopo la tragedia della shoah, col supporto delle principali potenze venne istituito nel 1948 lo Stato di Israele. Nel 1947 l’ONU aveva spartito infatti la Palestina fra Ebrei e Palestinesi e Israele viene ammesso alle Nazioni Unite con l’impegno, unico stato membro, di rispettarne tutte le deliberazioni, deliberazioni che sono state violate costantemente da Israele.
I governi israeliani hanno avuto infatti politiche sempre più aggressive nei confronti della popolazione palestinese, basta vedere la progressiva occupazione dei territori attraverso la fondazione delle colonie, la costruzione del muro, gli attacchi a Gaza, senza contare i circa 400 villaggi rasi al suolo dal 1948, l’uccisione o la cacciata dalle loro case di migliaia di Palestinesi, il processo di de-arabizzazione perfino nella toponomastica oltre che nella cultura, nelle tradizioni e nel culto.
Ma se esaminiamo attentamente la questione israeliana ci rendiamo conto che non sono solo i Palestinesi ad essere vittime del sionismo ma anche una parte degli stessi Ebrei come ci ha raccontato nei giorni scorsi Vera Pegna, ebrea italiana, presentando a Cagliari il libro “Le vittime ebree del sionismo” di Elle Shohat, una studiosa ebrea di origine irakena.
Di fronte alla necessità di manodopera, alla volontà di ridurre al minimo il lavoro palestinese, alla forte diminuzione dell’arrivo di Ebrei dall’Europa, i diversi governi israeliani decisero di spingere gli Ebrei sefarditi che vivevano nei diversi paesi arabi, e che il sionismo aveva ignorato, ad abbandonare le loro sedi e trasferirsi in Israele. All’inizio non ottennero successo, gli Ebrei avevano fondato importanti comunità ben inserite nel tessuto economico, sociale e culturale arabo. A differenza degli ebrei ashkenaziti in Europa, non avevano subito violenze né particolari discriminazioni. Non si era perciò sviluppata l’idea della Terra promessa.
Furono allora mandati agenti del Mossad per creare episodi di intolleranza nei confronti degli Ebrei come se provenissero dalla popolazione araba. Nello stesso tempo dirigenti israeliani teorizzavano la necessità di lacerare il millenario tessuto culturale fatto di tolleranza e rispetto che si era creato in paesi come ad esempio Egitto, Irak, Iran sedi delle comunità più ricche e importanti. Addirittura esistevano luoghi di culto venerati contemporaneamente e in armonia da Ebrei e Musulmani.
Di fronte a questa nuova situazione di incertezza però in molti decisero di trasferirsi in Israele. Furono accolti con spruzzi di DDT perché ritenuti infettanti e arretrati, furono presto spostati nei territori più lontani e difficili e cominciò un’opera di de-arabizzazione dei loro nomi, delle loro tradizioni per far perdere il senso della loro identità. Furono loro assegnate case abbandonate dai Palestinesi costretti alla fuga in modo di creare ostilità fra di loro. Gli furono assegnati i lavori più miseri e duri e furono discriminati, considerati “selvaggi e polvere di uomini” come li definì Ben Gurion.
Questo stato di cose sta però ora determinando un diverso atteggiamento da parte della nuova generazione che, anche se ancora in forma limitata, sta iniziando a voler riscoprire le proprie origini e a rivendicare la propria arabità. Potrebbero così crearsi le basi per un unico stato in Palestina, laico e democratico, che veda non più una minoranza proveniente dall’Europa che discrimina ed esercita in modi violenti il potere ma Ebrei e Palestinesi che convivono in pace come prima che il sionismo mettesse in pratica il suo progetto colonialista.