Dalle stanze del controllo
16 Novembre 2007
Lia Turtas
Il visitatore del padiglione un tempo chiamato ‘VI Donne’, posto all’interno dell’ex ospedale psichiatrico di Rizzeddu di Sassari e oggi sede dell’Afarp (associazione dei familiari per l’attuazione della riforma psichiatrica) è accolto all’ingresso dalla gentilezza di Angelo Pisuttu, Vanna Marongiu e dei loro numerosi soci e amici.
Inoltrandosi negli spazi una volta destinati alle cosiddette donne calme, fa poi una ben strana esperienza.
A pochi passi dal paesaggio quotidiano, dalle scuole e dai negozi, dai bar e dai condomini di una delle tante anonime periferie della città, questo luogo ha ancora qualcosa da dire, e non solo, com’è ovvio, per la sua storia.
Alcune fotografie alle pareti testimoniano lo stato di abbandono in cui versava l’edificio, ora gradualmente in via di recupero.
L’associazione ha ricevuto i locali in comodato e li sta convertendo alle attività per i soci.
Il vecchio e il nuovo convivono: i laboratori allestiti di recente e i vecchi letti arrugginiti, i pavimenti tirati a lucido e i materassi sfilacciati, il mobilio da ufficio e quello sgangherato da ospedale.
Accanto all’ammirazione per la caparbietà dei nuovi occupanti, il sentimento è quello che i più conoscono per sentito dire, letto sui libri, o descritto nei mille documentari che hanno reso luoghi comuni – ancora non del tutto, si spera – i lager del secolo breve e del nostro.
Mettendo piede qui dentro, si prova uno strano senso di disagio, il senso di colpa tipico dei sopravvissuti. La sensazione è quella di aver visitato un luogo invisitabile, di avere spezzato un che di sacro e autentico, dimensioni ormai del tutto precluse alle nostre menti e corpi spettacolari.
E non c’è bisogno di pannelli illustrativi o ciceroni per accorgersene.
D’accordo, la condanna scatta automatica, l’indignazione è scontata, ma siamo sicuri che questo luogo non continui a rivolgerci un avvertimento, e che riusciremo a garantirgli un destino capace di riscattare pienamente quello passato?
È in questo luogo e tempo specifici che si situa l’intervento di Igino Panzino, artista sassarese che ha spesso indagato nella sua opera il rapporto tra arte e realtà, e continua a farlo in questa occasione con nuove implicazioni.
Grandi pannelli appesi ai muri delle stanze creano un campo, una messa a fuoco che isola, ma non del tutto, la sfera dell’arte da quella del dato circostante. All’interno dello spazio delimitato, la dignità offesa degli oggetti prelevati dal contesto viene parzialmente riscattata, e sembra per un attimo assumere contorni di finzione estetizzante, di distanza rassicurante.
Se il prelievo avviene, tuttavia esso non è completo, a ribadire l’irreversibile compromissione dell’arte con il reale, e a indicare una sorta di riserbo e rispetto per ciò che neanche l’artista può più trasformare in oro.
Non è il solo interesse fenomenologico a spingere Panzino. In un luogo così carico e connotato, non basta fare ricognizioni sulla realtà, ma occorre chiedersi anche su quale realtà esse si stiano conducendo.
Ciò non significa che l’artista cada nella lettura rievocativa e consolatoria che il contesto immediato potrebbe suggerire, nell’inventario da camposanto messo in piedi in analoghe situazioni dai professionisti dell’arte della memoria.
Panzino anzi, quando allude al dato della presenza umana lo fa con ironia e disincanto, annodando una cravatta – alquanto scomoda, ma non priva di valore estetico! – o appuntando all’attaccapanni un rosso paltò per un giro in città, facendo ruotare sugli scaffali una ciotola gialla con una color bronzo, drappeggiando teatralmente un logoro coprimaterasso a righe, restituendo insomma un briciolo di civetteria – e perciò di capacità di resistenza – alle sbiadite figure delle antiche occupanti.
Non significa che la nuda vita un tempo oggetto di controllo pervasivo sia sottoposta ad estetizzazione, ma semmai che essa diventi il metro di paragone, il limite irriducibile con cui l’operazione artistica deve fare i conti e dal quale trarre un senso. E non è detto neanche che il discorso vada confinato allo spazio ed al momento interni scelti; può darsi invece benissimo che anche del nostro spazio e momento storico esterno si stia parlando.
Altro che memoria! Là dentro ci siamo stati anche noi, proprio perché ne eravamo fuori; e ci siamo ancora dentro fino al collo, anche se non sempre ce ne ricordiamo.
Panzino insomma, in questo omaggio a esseri e individualità negate, allude ad un’idea di arte che, consapevole del naufragio delle grandi narrative, non rinuncia a mettersi in discussione e umilmente reinventa le ragioni quotidiane del suo fare.
Non è la resistenza dei gesti eclatanti, ma la sottolineatura in punta di piedi, lieve, la vanità o il vezzo, se vogliamo, delle piccole decisioni che l’artista – e l’essere qualunque – possono ancora prendere, talvolta.
Se, come è stato detto, la vita è l’insieme delle funzioni che resistono alla morte, l’arte è qui l’insieme delle funzioni che, perlomeno, tentano di resistere allo spettacolo (della merce e del potere sulla vita).
Il lavoro di Panzino si nutre da sempre di antinomie: analiticità e artigianalità, riflessione e percezione, ragione e sentimento. Ma stavolta l’equilibrio tra emozione e progettualità si carica di significati nuovi, travalica i confini dell’opera e rimescola le categorie note e dialetticamente rassicuranti.
La salvezza dell’arte – e nostra – potrà allora passare forse anche dal misurarsi con questioni da essa in apparenza lontanissime.
FUORI LUOGO | installazioni di Igino Panzino
Sede AFARP, via Rizzeddu 21 b, Sassari
Fino al 20 novembre, h 17- 20 (chiuso lunedì),
Catalogo Soter editrice
Testo in catalogo di Mariolina Cosseddu e Sonia Borsato
foto di Salvatore Ligios
17 Novembre 2007 alle 01:35
un brivido ha accompagnato la lettura, grazie Lia