Elezioni. Perché dirsi di sinistra oggi non basta

16 Giugno 2016
piras-michele
Michele Piras
Le elezioni di Cagliari le ha vinte Massimo Zedda. Le ha vinte perché ha governato bene, le ha vinte per il profilo che ha, le ha vinte al primo turno per assenza di avversari altrettanto credibili, le ha vinte perché era il migliore

. Non riesco a vedere altra chiave di lettura, tantomeno attraverso la lente dell’analisi più propriamente politica, di questo successo che ha dell’eccezionale in una molteplicità di accezioni del termine.

A noi addetti ai lavori viene immediato registrare una vittoria del centrosinistra. Ma di questo, in fondo, non si tratta. Non per il solo motivo della presenza in coalizione del Psd’Az (Massimo avrebbe vinto anche senza), quanto perché città per città è sempre più manifesta una tendenza alla spoliticizzazione della società, quindi anche dell’espressione del voto.

La crisi ha definitivamente schiantato le appartenenze (siano esse di partito o di campo politico) e le formazioni politiche. Oggi si vota (più di ieri) per il sindaco che più ci pare in grado di dare risposte alla città e per il candidato (o la coppia di candidati) che più conosciamo direttamente e più ci è vicino.
La categoria, certamente pre politica, della credibilità ci consente di leggere anche il risultato della sinistra (o di ciò che rimane) attraversando tutto il Paese, area metropolitana di Cagliari compresa: a Sesto Fiorentino un giovane candidato della sinistra-sinistra (come si usa dire) ottiene il 28% e trascina il Pd al ballottaggio, a Roma uno degli esponenti di spicco di Sinistra italiana raccoglie un misero 4,5% di voti prevalentemente ottenuti nel centro buono della Capitale, a Torino Giorgio Airaudo si ferma ancora più in basso, a Milano, dentro la coalizione che raccoglie l’eredità di Pisapia, SinistraXMilano sta al 4%.
A Sinnai, in una coalizione che sfida un Pd a trazione destra, la lista di Sel ottiene il 16% e si va al secondo turno in netto vantaggio. A Monserrato, con la sinistra all’8%, è il Pd a convergere al secondo turno. Insomma: non esiste una formula scritta a tavolino che possa funzionare in sé. Esiste un candidato credibile e un candidato meno credibile. In questi termini del resto si misura anche il risultato elettorale a macchia di leopardo del M5S e l’abisso percentuale – ad esempio – di voti fra il risultato di Virginia Raggi a Roma e quello della Martinez a Cagliari o di Brambilla a Napoli. E Virginia Raggi e Chiara Appendino non sono puro e semplice voto di protesta, non più: la loro è una credibile alternativa di governo. E questo lo dico a prescindere dal mio giudizio, severo, sul Movimento di Grillo.
E se alla credibilità del candidato si aggiunge la percezione di un miglioramento ottenuto nel quinquennio precedente, i cittadini tendono a confermare la fiducia. Nel caso di un ipotetico quarto polo, tutto da analizzare nelle sue potenzialità nazionali, questo si può dire anche nella Napoli di Luigi De Magistris. Credo che queste considerazioni si reggano anche se scritte qualche giorno prima del turno di ballottaggio. Provare a iperpoliticizzare la società dei frammenti e delle precarietà è un errore. E chiunque abbia provato a farlo da sinistra – a Roma come a Cagliari come a Torino – ha perso malamente.
A Cagliari due sono stati i maggiori contendenti, già dal principio: un ragazzo di 40 anni, sindaco uscente, che ha rinunciato al vitalizio regionale un mese prima di maturarlo, che ha abbandonato il Consiglio regionale (con le sue maggiori indennità e comodità) per servire la sua città. Un figlio di questa città che viene percepito come risorsa fresca e pulita. Dall’altra un anziano signore, pluridecorato istituzionale nazionale, provinciale e “portuale”. Poteva costruirne anche altre dieci di liste civiche, che non sarebbe bastato a colmare un divario di profili impressionante. E i profili che funzionano sono sempre quelli che il contesto indica, non quelli costruiti nei laboratori chimici della politica politicante.
Questo innanzitutto (e secondo me) è il risultato elettorale, seppur in una analisi ammetto un po’ sbrigativa. E semmai andrebbe sviscerato il nodo irrisolto (che Marco Ligas centra perfettamente nella sua riflessione): quello di un crescente e (apparentemente) irreversibile distacco dalla politica e dall’esercizio minimo del voto. Che vale ovunque, quindi anche a Cagliari. Ed in esso, nel popolo dei disgregati e fra le moltitudini che hanno perso ogni speranza e ogni fiducia, che si annida anche la chiave di volta della ricostruzione possibile di una sinistra non-compatibile, nel senso che non accetta lo stato dell’arte, che opera per un cambiamento sociale e politico e per una alternativa concreta, radicale e – appunto – credibile.
E per parlare con questa parte di società dirsi di sinistra oggi non basta più, tanta è la rabbia, la frustrazione, la fatica del quotidiano. Serve perciò una classe politica nuova della sinistra, volti e profili che non abbiano subito l’usura della vicenda politica, inattaccabili, puliti, freschi. Che sappiano “parlare come mangiano”, che propongano un progetto di società nuovo e una modalità nuova di organizzare la politica e l’aggregazione sociale, capaci di riannodare trame sociali, mondi, reti di associazioni e di cittadinanza. Di narrare un Paese migliore e di farlo ogni giorno, non solo all’approssimarsi dell’appuntamento elettorale.

1 Commento a “Elezioni. Perché dirsi di sinistra oggi non basta”

  1. Antonello Murgia scrive:

    “E per parlare con questa parte di società dirsi di sinistra oggi non basta più, tanta è la rabbia, la frustrazione, la fatica del quotidiano”. E forse le categorie destra sinistra non sono sufficienti. E forse per caratterizzare un movimento che intende cambiare lo stato di cose esistenti bisogna definire punti programmatici chiari, netti e creatori di conflitto (dove non tutti si possano riconoscere). Alcuni (banali) esempi: taglio alle spese militari, lotta all’evasione fiscale, politiche di redistribuzione del reddito… Ma non bastano i punti programmatici. C’è bisogno anche di classe dirigente adeguata e sopratutto di modelli organizzativi della politica che siano inclusivi…costi quel che costi. Il leader va bene, ma a condizione che sia lui/lei la risultante di un percorso di partecipazione (che ne monitora l’azione), e non, al contrario, il creatore di percorsi autoreferenziali. Cun saludi a tottus

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