Passato e futuro dell’economia italiana rispetto all’economia-mondo

1 Febbraio 2017
Gianfranco Sabattini

Paolo Onofri, economista e segretario generale di Prometeia, l’Associazione per le Previsioni Econometriche nata nel 1974 per iniziativa del noto economista dell’Università di Bologna Nino Andreatta, poi trasformata, nel 1981, sempre su sollecitazione dell’economista bolognese, in “Prometeia Associazione per le Previsioni Econometriche”. Questa, oltre a fornire servizi di calcolo all’Associazione originaria, ha poi sviluppato competenze specifiche di analisi dei mercati e degli intermediari finanziari; infine, alla fine degli anni Ottanta, “Prometeia” si è ulteriormente trasformata nel centro previsionale che l’ha resa famosa, per divenire nel 2006 “Prometeia Advisor Sim”, consulente per gli investitori istituzionali.

Nell’articolo “Economia mondiale, economia italiana. Un contrappunto”, pubblicato sul fascicolo 1/2016 de “Il Mulino”, Paolo Onofri offre, dalla sua “privilegiata posizione”, un interessante confronto retrospettivo e prospettico dell’economia italiana rispetto all’andamento passato e al prevedibile futuro dell’economia-mondo, accompagnato da alcune responsabili considerazioni critiche relative alle previsioni concernenti l’Italia.

Nel periodo compreso tra il 1951 e il 1975, “la crescita del PIL reale aveva proceduto al tasso del 5,1% medio annuo, e del 4,3% in termini pro capite; contro, ad esempio, un aumento medio annuo del PIL pro capite in termini reali negli Stati uniti del 2,3% nello stesso periodo”. La crisi internazionale esplosa negli anni Settanta, con il collasso, prima, degli accordi di Bretton Woods e, successivamente, dei mercati delle materie energetiche, quindi con il crescente indebitamento dei Paesi in via di sviluppo, ha causato una radicale cesura nell’evoluzione che aveva caratterizzato sino ad allora l’economia mondiale. La politica di bilancio con la quale nei primi venticinque anni del dopoguerra era stata realizzata la stabilizzazione della domanda aggregata, quindi dell’occupazione, ha dato origine ad una forte instabilità di tutti prezzi, sia dei prodotti e dei servizi, che delle materie prime, divenuta una caratteristica persistente delle economie sviluppate.

Il fenomeno dell’inflazione associata alla stagnazione ha messo in crisi la politica di bilancio, rendendo confusi gli obiettivi tradizionali della politica monetaria, a causa del venir meno della “certezza, come nei decenni precedenti, della crescita della domanda, della stabilità dei livelli dei tassi d’interesse e di cambio”; con la conseguenza che il ventennio 1975/1995 è stato caratterizzato da “radicali mutamenti nella gestione delle politiche economiche, indotti dal crollo del sistema monetario di Bretton Woods e dagli shock petroliferi degli anni Settanta.

L’obiettivo principale della politica monetaria è divenuto così quello di rientrare dall’inflazione, mentre la politica di bilancio è risultata fondamentalmente orientata al perseguimento della stabilizzazione del disavanzo del debito pubblico, anziché della domanda finale del sistema economico. In tal modo – afferma Onofri – sono state gettate le basi “per la liberalizzazione dei sistemi finanziari e l’uscita da decenni di ‘repressione finanziaria’, come ora vengono chiamati i primi venticinque anni del dopoguerra, quando la forte regolamentazione dei mercati finanziari aveva evitato riflessi finanziari delle politiche di bilancio espansive”. Mentre, però, in altri Paesi, il rientro dall’inflazione è stato razionalmente perseguito attraverso un mix di misure monetarie e fiscali, in Italia le difficoltà di attuare lo stesso tipo di politica economica ha imposto la necessità di affidarsi al “vincolo esterno”, ovvero “allo SME e all’adesione alle tappe verso il mercato unico e l’unione monetaria”.

Vent’anni dopo gli shock monetari e quelli dei mercati delle materie prime, mentre i Paesi che avevano perseguito con continuità il rientro dall’inflazione potevano garantire la difesa dei livelli di benessere raggiunti, l’Italia, ancora impegnata ad “aggiustare” la propria economia ha dovuto affrontare le difficoltà connesse all’ingovernabilità del suo debito pubblico; a peggiorare la situazione – afferma Onofri – sono sopraggiunte anche “le ansie che ora sono conclamate. Sul piano politico: il passaggio dallo scontro tra le ideologie allo scontro tra le civiltà (clash of civilizations). Su quello economico: le implicazioni non sempre facili da accettare per le politiche nazionali dell’allora imminente unione monetaria europea”.

Il cambiamento complessivo dell’economia mondiale ha segnato per l’Italia l’inizio di un trend di crescita che ha cambiato tendenza rispetto al passato; infatti, tra il 1975 ed il 1995, il tasso di crescita medio annuo dell’economia nazionale si è ridotto al 2,4% e quello del reddito pro capite al 2,2%. Il contenimento dell’inflazione indotta dagli shock di vent’anni prima ha lasciato aperta “la questione del debito pubblico”, mentre la politica di bilancio è stata perseguita in funzione della sua sostenibilità; obiettivo, quest’ultimo, ancora ora in corso di perseguimento.

A livello internazionale, tra il 1995 e il 2007 si è continuato a perseguire l’obiettivo del controllo dell’inflazione e quello della sostenibilità fiscale del debito pubblico; sotto l’apparente calma di una fase di stabilità, da alcuni definita “Grande Moderazione”, sono nate, per via della crescente finanziarizzazione dell’economia, numerose bolle speculative, la principale delle quali, quella dei mutui subprime americani, è esplosa nel 2007/2008; ciò ha dato inizio ad una crisi dell’economia-mondo, i cui ultimi effetti sono ancora in corso, con il rallentamento della crescita in tutti i Paesi, le cui aspettative sono state depresse più di quanto non lo fossero state a metà degli anni Novanta. Per l’Italia, il periodo 1995/2007, sotto l’apparente calma della fase internazionale della “Grande Moderazione”, si è verificata un’ulteriore riduzione del trend di crescita rispetto a quella verificatasi nel periodo 1975/1995.

L’ulteriore contrazione del tasso di crescita annua dell’Italia, a parere di Onofri, è stata determinata dal fatto che l’”intensità della concorrenza internazionale e il rallentamento della crescita della produttività erano stati i principali fattori specifici della modificazione del trend verificatosi tra il 1975 e il 1995, ma non erano stati pienamente valutati nelle loro implicazioni prospettiche”. Prima ancora dell’esplosione della crisi attuale, la mancata valutazione di quei fattori specifici è stata infatti la causa dell’ulteriore contrazione della crescita degli anni 1996/2007; il tasso di crescita medio annuo si è ridotto all’1,6% e quello della crescita in termini pro capite all’1,3%. Si è trattato – afferma Onofri – “di un mutamento di trend di minore intensità rispetto a quello dovuto alla rottura dell’ordine internazionale di quaranta anni fa” Il sopraggiungere della crisi ha ulteriormente peggiorato il ritmo della crescita dell’economia nazionale.

Di fronte alla situazione descritta, è inevitabile porsi il problema del come uscire dal continuo trend negativo della crescita: deve l’Italia accettare la prospettiva di un’ulteriore riduzione della propria crescita, oppure può riconquistare il ritmo di crescita del decennio precedente lo scoppio della crisi del 2007/2008? A parere di Onofri, una semplice estrapolazione meccanica dei dati dal 1951 ad oggi condurrebbe a un trend ancora più basso di quello pre-crisi; è più opportuno, perciò, ricorrere a valutazioni prospettiche effettuate sulla base di modelli strutturali, quale quello che Michele Catalano ed Emilia Pezzolla hanno presentato nel 2015 alla “XII Euroframe Conference di Vienna”.

Si tratta di un “modello a generazioni sovrapposte”, costruito ipotizzando una “parità di contesto internazionale e di politica economica”, dal quale sono state estratte le implicazioni dell’evoluzione “della popolazione totale e della sua distribuzione per età su offerta di lavoro, formazione di risparmio e quindi accumulazione di capitale e crescita”. Nel modello, la componente demografica non è stata considerata solo in funzione della sua numerosità, “ma anche della qualità del capitale umano”, stimata con indici che hanno fatto “riferimento al livello di scolarità delle diverse classi di età” e di quelle che via via sarebbero entrate nel mercato del lavoro; dalla combinazione di quantità e qualità del capitale umano è stata calcolata la formazione del capitale fisico, che si è supposto incidente “sulla dinamica della produttività totale dei fattori produttivi”.

Gli effetti complessivi ricavati dal modello hanno suggerito, per l’Italia negli anni 2016/2040, la possibilità di una “crescita media annua potenziale” pari ad un tasso dell’1,3%, di poco inferiore a quella degli anni 1995/2007: “Più lenta nel primo decennio e un po’ più sostenuta successivamente quando, nel corso della seconda metà dei prossimi anni Venti”, vi sarà “un ricupero della crescita potenziale, conseguente sia alla ricostituzione dello stock di capitale fisico […], sia alla diffusione più ampia di una maggiore scolarità a tutte le coorti delle forze di lavoro”.

A parere di Onofri, quindi, alla domanda se l’Italia debba accettare la prospettiva di un’ulteriore riduzione del trend di crescita, la risposta è che ci sarebbero le condizioni “per riprendere a crescere al ritmo quasi uguale a quello degli anni pre-crisi, ma senza recuperare il terreno potenziale prospettico che la crisi ci ha fatto perdere”. Le valutazioni, tuttavia, hanno il limite d’essere basate su un modello previsionale il cui mondo di riferimento è limitato soltanto alla considerazione di tre Paesi: Italia, Francia e Germania. Inoltre, Onofri è consapevole che fare previsioni per i prossimi decenni è un’operazione ad alto rischio: intanto, perché le previsioni spinte sino a date molto lontane possono essere valutate solo sulla base di considerazioni di natura qualitativa; in secondo luogo, perché l’economia-mondo esprime un orizzonte molto più complesso di quello espresso dai tre soli Paesi presi in considerazione dal modello utilizzato per le previsioni; infine, perché il presente è caratterizzato da fenomeni che ora sono ancora embrionali, ma che nel futuro potrebbero essere la causa di ulteriori radicali trasformazioni dell’intero scenario economico mondiale.

In conclusione, secondo Onofri, “a distanza di quarant’anni dal primo grande shock petrolifero, di venti dalle svolte della metà degli anni Novanta e di quasi nove dall’inizio della crisi”, ci si può chiedere che cosa stia maturando a livello globale alla fine del 2016. Per quanto riguarda l’Unione Europea, nella quale sono integrati i tre Paesi considerati dal modello di Catalano e Pezzolla, la crescita potenziale è esposta ai rischi connessi agli ostacoli di natura socio-politica (migrazione, terrorismo, movimenti sociali anti-euro), di natura istituzionale e demografica; il clima di incertezza nascente dalla percezione di tali rischi fa sì che il governo del presente europeo sia “nelle mani della politica tout court“.

Per quanto riguarda l’Italia – afferma Onofri – “ragioni strutturali di fondo difficilmente modificabili suggeriscono che la crescita potenziale riprenderà, sì, ma a ritmi limitati. Ritmi che saranno sempre più condizionati dall’estero”. Si tratta di una conclusione in linea con quella formulata da Giuseppe Berta nel suo recente libro “Che fine ha fatto il capitalismo italiano?”, nel quale lo storico della Bocconi ha sottolineato l’urgenza, per il Paese, di un ridimensionamento delle sue aspettative. Senza che ciò debba implicare una sorta di autoripiegamento rispetto allo spazio occupato nel passato, il ridimensionamento deve invece costituire la premessa per fare “riguadagnare” al Paese un clima di fiducia, utile per poter effettuare scelte responsabili in funzione di un futuro problematico.

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