Per il 156° Anniversario dell’Unità io non festeggio

16 Marzo 2017
Francesco Casula

Il 17 marzo prossimo ricorre il 156° Anniversario dell’Unità d’Italia. Ma io non festeggio. Lungi dall’essere l’inizio delle magnifiche sorti e progressive, come mistificando e falsificando scrivono ancora oggi i libri della scuola ufficiale, fu per la Sardegna e il Meridione una sciagura.

L’Unità d’Italia si risolverà sostanzialmente nella piemontesizzazione della Penisola e fu realizzata dal Regno del Piemonte, dalla Casa Savoia, dai suoi Ministri – da Cavour in primis –  dal suo esercito in combutta con gli interessi degli industriali del Nord e degli agrari del Sud – il blocco storico gramsciano – contro gli interessi del Meridione e delle Isole e a favore del Nord; contro gli interessi del popolo, segnatamente del popolo-contadino del Sud;  contro i paesi e a vantaggio delle città, contro l’agricoltura e a favore dell’industria. C’è di più: si realizzerà un’unità  biecamente centralista e accentrata, tutta giocata contro gli interessi delle periferie e delle mille città e paesi che storicamente avevano fatto la storia e la civiltà italiana. A dispetto del pensiero della gran parte degli intellettuali che durante il “Risorgimento” e dopo furono federalisti e non unitaristi.

La “Conquista militare” da parte del Piemonte del Sud Italia (la Sardegna era già stata “conquistata“ con la Fusione perfetta), comporterà gravi conseguenze sulle condizioni di vita dei lavoratori, in primis di quelli delle campagne, sarde e meridionali. Da quella scelta, da quella costosissima e sanguinosa operazione militare, deriveranno tutti i mali che affliggeranno nei secoli successivi l’Italia: il sottosviluppo del Meridione (con l’invasione piemontese e la riduzione del Sud a colonia interna e con il brigantaggio), il gravissimo deficit di democrazia (votava poco più dell’1% della popolazione) che condurrà a politiche sciagurate, come la partecipazione alla tragedia della Grande Guerra prima e al Fascismo poi.

La politica del nuovo stato unitario, centralista e statalista  produrrà la devastazione dell’economia. Con il crollo della produzione agricola, quello delle esportazioni, un’industria (e solo al Nord!) che nasce assistita e fuori dai principi del libero mercato. Cui occorre aggiungere un colossale debito pubblico dovuto alle guerre e alle spese militari, oltre che al malgoverno. Nel 1862, anno in cui fu presentato al Parlamento il primo bilancio del regno d’Italia, il debito nazionale era di tre miliardi di lire, all’inizio del 1891, il solo debito consolidato era di 13 miliardi di lire. Questo immenso debito era prodotto dalle guerre e dalla politica militarista

Le cose per la nostra Isola non solo non cambiano ma peggiorano. Scrive Giuseppe Dessì nel suo bel romanzo Paese d’ombre: “La Sardegna era entrata nell’unità nazionale moralmente ed economicamente fiaccata. I Savoia, che ne erano venuti in possesso col Trattato di Londra, avevano continuato e se mai accentuato lo sfruttamento e il fiscalismo tanto che i sardi, per due volte, cercarono di liberarsene. La prima fu nel 1794 quando, a furor di popolo, costrinsero i piemontesi a lasciare l’isola; la seconda nel 1796 quando Sassari proclamò la repubblica, soffocata poi nel sangue. Il governo regio e i fanatici dell’unificazione non avevano tenuto conto delle differenze geografiche e culturali, e avevano applicato sbrigativamente a tutta l’Italia un uniforme indirizzo politico e amministrativo” .

Anzi, in campo fiscale ad essere più danneggiati e discriminati sono proprio i sardi. Scrive a questo proposito lo storico Natale Sanna: ”La pesante contribuzione di guerra imposta dal Radestzky dopo le sfortunate campagna del 1848/49 e, soprattutto, la politica economica e militare del Cavour nel decennio di preparazione costrinsero il governo a un inasprimento della pressione fiscale. Mentre il Piemonte si avvantaggiava della politica di libero mercato e di rinnovamento, propugnata dai liberali, con l’incremento dei traffici, con la costruzione di strade e di linee ferroviarie, col progresso dell’agricoltura e col sorgere di industrie, la Sardegna, provincia periferica e priva di capitali, fu chiamata unicamente a contribuire con il suo danaro…Quando poi si decise di far pagare sul reddito fondiario si commise un’ingiustizia ancora più grave. Per le province piemontesi più povere (Valsesia, Domodossola) l’imposta fu fissata nell’1,32% del reddito, per le più ricche (Torino, Lomellina) nel 10% e per le medie del 6%. Tutta la Sardegna fu equiparata alle più ricche e la sua aliquota fu fissata nel 10%”.

Le tasse che la Sardegna paga sono  dunque superiori alla media delle tasse che pagano le altre regioni italiane, talvolta persino superiori a quelle delle regioni più ricche. Scrive a questo proposito Giuseppe Dessì sempre nel romanzo Paese d’ombre “La legge del 14 luglio 1864 aveva aumentato le imposte di cinque milioni per tutta la penisola, e di questi oltre la metà furono caricati sulla sola Sardegna, per cui l’isola si vide triplicare di colpo le tasse. In molti paesi del Centro, quando gli esattori apparivano all’orizzonte, venivano presi a fucilate e se ne tornavano, a mani vuote, ma più spesso l’esattore, spalleggiato dai Carabinieri, metteva all’asta casette e campicelli e tutto questo senza che nessuno tentasse di difendere gli isolani. I politici legati agli interessi del governo, predicavano la rassegnazione. I sardi si convincevano di essere sudditi e non concittadini degli italiani e sempre più si abbandonavano alla loro secolare apatia e alla totale sfiducia nello stato…”.

Dopo l’Unità nel 1868 fu istituita anche la tassa sul macinato, l’imposta più odiosa di tutte, perché – scrive ancora Dessì – gravava sulle classi più povere, consumatrici di pane e di pasta e particolarmente dura in Sardegna, dove il grano veniva di solito macinato nelle macine casalinghe fatte girare dall’asinello”. Con l’Unità d’Italia inoltre continua il tentativo di dessardizzazione e di snazionalizzazione dei Sardi, cercando di viepiù deprivarli della loro identità etno-nazionale. Il tentativo di sradicamento e di omologazione passa soprattutto attraverso la negazione e proibizione della nostra storia e, in specie della nostra lingua, ad iniziare dalla scuola.

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