La seduzione del Caos
16 Marzo 2017Gianfranco Sabattini
Alcuni rinvengono nel caos che avvolge il mondo attuale un principio dinamico, idoneo a consentirgli di “disincagliarsi” dalle secche di una crisi della quale stenta a liberarsi. Ad illustrarne le implicazioni provvede una delle ultime “fatiche” editoriali di Federici Rampini, col libro “L’età del caos”; titolo che sembra evocare la possibilità che il caos sia destinato a permanere a lungo, connotando addirittura un’intera epoca storica.
Tale epoca sarebbe caratterizzata dalle “linee di frattura che attraversano il mondo in cui viviamo […]. Dalla geopolitica all’economia, dall’ambiente alla crisi delle democrazie, dalla rivoluzione tecnologica al futuro delle potenze emergenti, Cina e India”. Pertanto, Rampini è del parere che conoscere il caos è “la condizione essenziale per padroneggiarlo, o almeno per galleggiare, sopravvivere, adattarsi” e, soprattutto, per capire lo stato attuale del mondo.
Il caos eserciterebbe una sorta di seduzione sui commentatori di “come va il mondo” in presenza di tali linee di frattura, seduzione che sarebbe persino possibile avvertire anche in uno “slittamento del linguaggio”; tradizionalmente, l’uso del sostantivo serviva a descrive situazioni di disordine intervenute in strutture organizzate e bene ordinate, nel campo dell’economia, della politica o delle scienze in generale. E’ paradigmatico, a parere di Rampini, il fatto che un noto esperto di geopolitica americano, Joshua Cooper Ramo, abbia fatto del caos un principio ispiratore della dinamica economica. In “Il secolo imprevedibile. Perché il nuovo disordine mondiale richiede una rivoluzione del pensiero”, Ramo considera il mondo attuale caratterizzato da una profonda asimmetria. Da una parte, esistono “delle classi dirigenti, dei membri dell’establishment, dei governanti, la cui formazione è irrimediabilmente radicata nel passato, quindi incapaci di capire il futuro”, queste categorie di persone tendono a pensare in modo “lineare”, “come se la storia fosse prevedibile, e quindi fosse possibile ripristinare qualche tipo di status quo, di stabilità”. Dall’altra parte, esistono le nuove élite, “i veri protagonisti del futuro”, cioè quei politici, quegli imprenditori, o uomini d’affari, che vedono nell’instabilità un’occasione da non perdere, pensando “al caos come a un’opportunità”.
Costoro sono i nuovi interpreti della “distruzione creatrice” di schumpetriana memoria; essi pensano che, per essere protagonisti ed avere successo, si debba essere distruttivi, cioè dirompenti; il loro modo di pensare, osserva Rampini, evoca analogie con il pensiero di Mao Zedong e di Lev Trockij, che hanno teorizzato la pratica della “rivoluzione permanente, facendo dell’instabilità una risorsa strategica. Il mondo di oggi sarebbe pervaso da un simile pensiero. Ma può il caos rappresentare realmente un’opportunità? Nella storia non sono mancate risposte affermative di personaggi autorevoli, quale è stata, ad esempio, quella dello stratega cinese del V secolo a.C., Sun Tzu; Rampini, però, per avere una risposta più vicina a noi, ha pensato di rivolgersi all’illustre matematico inglese Leonard Smith, il quale, nella sua risposta riguardo a cosa realmente rappresenti il caos, ha problematizzato, sia l’accezione popolare negativa e catastrofista del caos, che quella ottimistica e distruttiva in senso positivo di Ramo.
Dalla risposta del matematico si è appreso che uno dei “miti del caos” da respingere è “che esso renda inutile il tentativo di fare previsioni”. Nelle scienze, il caos riflette situazioni in cui “delle piccole differenze nel modo in cui sono le cose oggi possono avere conseguenze enormi su come saranno le cose in futuro”. Ciò significa che non è possibile pensare deterministicamente che il futuro del mondo sia prodotto dal suo stato attuale; ovvero, che si possa definire il suo stato futuro sulla base di quello attuale. La risposta del matematico ha spinto Rampini ad azzardare la domanda: perché allora del caos si dovrebbe vedere solo il lato negativo? Se realmente esso fosse anche portatore di aspetti positivi, non ci sarebbe da stupirsi del fatto che gli operatori più trasgressivi e più creativi tra le generazioni contemporanee colgano nel caos “una promessa di illimitate possibilità”. Ma la domanda retorica di Rampini ha ricevuto la risposta raggelante del matematico, secondo il quale: “Poche accuse sono tanto gravi come quella di aver speso la propria vita professionale a cercare risposte a una domanda sbagliata”. Dove sta il problema?
Il problema sta nel fatto che l’azione che coloro che si adoperano per avere successo nella prospettiva che il caos possa rappresentare un’opportunità agiscono nell’area del mercato mondiale globalizzato, nella presunzione di agire nel “vuoto”. Accade, invece, che nel mercato mondiale, quale è quello attuale, caratterizzato dall’assenza di regole condivise, coloro che credono nelle “promesse” del caos trovino dei competitori motivati dai loro stessi intenti; ciò, in assenza di regole, crea solo disordine, le cui implicazioni, come la storia insegna, è spesso foriera di guerre e di scontri armati, come ora sta accadendo, sia pure limitatamente ad alcune aree regionali del mondo, tra gli Stati ai quali “appartengono” i protagonisti del “turbocapitalimso” globale.
Per fugare l’attuale disordine occorrerebbe tornare all’ordine preesistente l’avvento della forma ora assunta dalla globalizzazione dei mercati nazionali; il mercato mondiale di allora era governato, prima dagli imperi coloniali e, successivamente, da Paesi assurti al ruolo di grandi potenze globali; sia gli Stati coloniali, che quelli assurti a grandi potenze dopo il secondo conflitto mondiale hanno sempre fatto riferimento, sia pure in termini tendenziali, all’“Ordine Mondiale” fondato sulla pace di Vestfalia firmata nel 1648. Uno dei principi sui quali era fondata quella pace riconosceva la potestà di ogni Stato di stabilire quali valori dovessero essere condivisi al suo interno; si trattava del riconoscimento della sovranità, nel senso che ogni singolo Stato “non doveva immischiarsi nelle vicende interne del suo vicino”. Tuttavia, l’ordine fondato unicamente sul rispetto dell’indipendenza di ogni Stato non è risultato molto stabile, in quanto è spesso accaduto che uno Stato emergente pretendesse, a giustificazione delle proprie mire espansionistiche, di imporre i propri valori agli altri.
Per contenere simili pretese, con il Congresso di Vienna del 1815, al principio delle sovranità è stato aggiunto quello dell’equilibrio di potenza, implicante la necessità di impedire, per iniziativa di uno o di pochi Stati, il predominio di uno di essi sugli altri. Ma il proliferare, nel XXI secolo, dei protagonisti statuali sulla scena mondiale ha reso obsoleti i principi sui quali era fondato l’ordine realizzato dopo la pace di Vestfalia. Ciò ha reso impossibile il ricupero di quei principi, poiché, a differenza di quanto accadeva nel passato, la politica estera ha cessato d’essere stabilizzata sulla base di regole garantite soltanto da pochi Stati più forti; oggi, oltre alle superpotenze, esiste una pluralità di protagonisti che, sebbene meno dotati in termini di potenza economica e militare, possono contare su una diversa opinione pubblica mondiale, ma anche su una diversa distribuzione della forza economica e su una globalizzazione che ha sconquassato, indebolendolo, il principio del rispetto della sovranità dei singoli Stati.
In queste condizioni, la realizzazione di un nuovo “Ordine Mondiale” stenta a prendere corpo, anche per le difficoltà che la Grande Recessione 2007/2008 ha creato all’interno di tutte le comunità nazionali, soprattutto per il rallentamento della crescita e l’approfondimento, come mai era accaduto in passato, delle disuguaglianze distributive; sin tanto che non sarà possibile rilanciare la crescita e, con questa, realizzare l’attenuazione delle disuguaglianze, sarà estremamente difficile pervenire a una nuova forma di regolazione del mercato mondiale e delle relazioni tra gli Stati. Il rilancio della crescita, in particolare, si troverà a fare i conti, a parere dell’economista Larry Summers, col fatto che il capitalismo, l’attuale modo di produzione globale, ha sinora fruito della “spinta” di due motori propulsivi: quello della crescente demografia e quello della dinamica tecnologica.
Nel passato, la crescita demografica ha sempre allargato le dimensioni del mercato, mentre la dinamica tecnologica è valsa ad aumentare la produttività del lavoro. Ora, da fattore propulsivo, la demografia si è trasformata in elemento frenante. Quanto alla dinamica tecnologica, i suoi effetti positivi sono più apparenti che reali; le innovazioni di processo e di prodotto promuovono produzioni prevalentemente orientate al mercato finale, determinando, da un lato, uno scarso impatto sull’ulteriore dinamica positiva del sistema produttivo, e dall’altro, lo stravolgimento della struttura delle professioni lavorative, da originare una disoccupazione irreversibile, che rende pressoché irrisolvibile il problema dell’attenuazione delle disuguaglianze distributive.
In presenza della persistente disoccupazione, il potere d’acquisto delle famiglie si riduce e con esso si riduce anche la domanda finale complessiva, al punto che da più parti viene suggerita la necessità di un rilancio dei diritti sindacali, di un inasprimento della fiscalità progressiva sui patrimoni e di una pre-distribuzione in luogo della usuale ridistribuzione del prodotto sociale; ciò perché si sta sempre più allargando il riconoscimento che, per ridurre le disuguaglianze e sostenere la domanda, non è più sufficiente intervenire ex post, ma occorre garantire a priori un allargamento dell’accesso di tutti al mercato. A ciò, alcuni aggiungono la preoccupazione originante dal fatto che il progresso tecnologico ha affievolito la trasmissione dei suoi esiti al lavoro, in quanto i “gadget” prodotti dalle attività produttive innovative avrebbero cessato di aumentare la produttività del lavoro, secondo i ritmi dei primi decenni successivi alla fine del secondo conflitto mondiale.
Rampini è del parere che il mancato aumento della produttività del lavoro sia il vero “enigma economico del nostro tempo […], Problema serio, perché nel lungo termine è dal progresso nella nostra produttività che può derivare un maggior benessere collettivo”, Sì!, il mancato aumento della produttività del lavoro sarà anche l’enigma del nostro tempo, ma esso non potrà essere “sciolto” sin tanto che precedentemente, o al più parallelamente, non sarà risolto il problema dell’ineguale distribuzione della ricchezza; giunti al punto cui si è giunti è illusorio che il problema dell’ineguaglianza distributiva possa essere risolto attraverso la crescita indotta dal solo miglioramento delle produttività del lavoro. Se l’aumento di questa procederà disgiuntamente dalla soluzione del problema dell’ineguale distribuzione del prodotto sociale, non potrà che esservi ulteriore disoccupazione ed ulteriore concentrazione della ricchezza, con esisti finali del tutto indesiderati.
Il trend di una continua e crescente concentrazione della ricchezza non può che essere un fatto negativo che possiede in sé la forza disgregatrice e distruttiva di qualsiasi tipo di organizzazione sociale. A dimostrarlo può valere l’esperimento mentale sugli esiti negativi della progressiva concentrazione della ricchezza, formulato già nel XIX secolo in Progresso e libertà da un economista americano poco conosciuto, Henry Gorge. Se il progresso tecnologico indotto dalla competitività internazionale continua via via a determinare l’espulsione continua e definitiva di quote di forza lavorativa dalle attività produttive, allora è possibile pensare ad un momento in corrispondenza del quale la produzione può essere ottenuta con azzeramento dell’occupazione. In tal modo, i controllori dei fattori produttivi, cioè del capitale, possono appropriarsi dell’intera produzione conseguita senza l’impiego di alcun lavoratore; l’intera forza lavorativa disponibile cesserebbe di partecipare, in una misura qualsiasi, alla distribuzione della ricchezza prodotta (espressa dalla produzione realizzata senza lavoro).
Per quanto il costo della “riproduzione” della forza lavorativa disponibile, ma inattiva, possa essere reso uguale al “costo della biada per i cavalli” o al “costo dell’olio lubrificante per il funzionamento delle macchine”, la produzione eccedente tale “costo di riproduzione”, rimanendo invenduta, mancherebbe di tradursi in ricchezza reale, riducendo il sistema sociale a vivere all’interno di un’economia funzionante in regime di uno stato stazionario regressivo. Questo limite, affermava George, al quale conducono “le invenzioni economizzanti il lavoro può sembrare molto, remoto perfino impossibile a raggiungersi; ma è un punto cui tende sempre più fortemente il progresso delle invenzioni”. Non c’è che dire! Si tratta di una conferma della previsione sul come saranno presumibilmente le cose domani, come conseguenza delle piccole differenze nel modo in cui le stesse cose si presentano oggi; previsione che trova il suo fondamento nella teoria del caos del matematico Leonard Smith.
Il limite, al quale si riferisce George, non potrà essere superato facendo affidamento su un generico senso di solidarietà umana, come sembra auspicare Rampini; quel limite, al contrario, potrà essere rimosso solo se le generazioni contemporanee vorranno considerare responsabilmente l’urgenza che le possibili politiche pubbliche, che si vorranno adottare a sostegno del rilancio della crescita, sia a livello dei singoli Stati, che a quello internazionale, prevedano la preventiva rimozione della maldistribuzione della ricchezza. Ciò al fine di evitare, non solo l’insuccesso di tali politiche, ma anche un futuro del mondo caratterizzato da un ulteriore peggioramento del disordine caotico che attualmente lo affligge