Destra e sinistra liquidate nella modernità
1 Dicembre 2007
Gianluca Scroccu
Esistono ancora destra e sinistra? Come si relazionano questi due concetti cardine della storia e della politica rispetto alle radicali modificazioni a cui stiamo assistendo in questi ultimi anni? Sono questi gli interrogativi su cui si sofferma Marco Revelli nel suo ultimo saggio, Sinistra e destra. L’identità smarrita, uscito in libreria in queste settimane per i tipi di Laterza.
Allievo di Norberto Bobbio, ordinario di Scienza della Politica all’università del Piemonte Orientale, Revelli è uno degli studiosi italiani che con maggiore attenzione si è dedicato allo studio delle culture politiche e delle loro trasformazioni.
In quest’ultimo saggio si sofferma in particolare sull’utilizzo delle due categorie di destra e sinistra come strumenti concettuali finalizzati alla creazione di nuovi spazi pubblici all’interno dei quali provare a dare risposte ai problemi della modernità.
Prima di ragionare su cosa siano, oggi, destra e sinistra, l’autore ne analizza i caratteri storici sviscerando le argomentazioni dei sostenitori delle ragioni della loro dissoluzione (in particolare quelle di chi vede nella crisi delle ideologie e nell’affermarsi di una modernizzazione neutra e onnicomprensiva la ragione della loro disgregazione).
Come ricorda lo studioso, la sinistra è stata storicamente a favore del progresso e della lotta per l’affermazione dell’uguaglianza (come scrisse lucidamente anche Norberto Bobbio nel suo fortunatissimo Destra e sinistra pubblicato nel 1994 da Donzelli), mentre la destra ha sempre privilegiato il piano della conservazione e della difesa dei valori della tradizione. E su questi paradigmi essenziali si sono via via declinate le varie esperienze che si sono affermate tra la fine del ‘700 e l’800: qui Revelli riprende la classica definizione di Rémond che descrive le tre destre (quella tradizionalista, quella orleanista e quella bonapartista), e quella di Georges Lefranc che delinea invece le tre sinistre (liberale, democratica, egualitaria). Saltando le rappresentazioni discorsive dei concetti di destra e sinistra sviluppatesi nel secondo Ottocento e nel Novecento, l’autore si sofferma direttamente sulla crisi apertasi nell’ultimo decennio del Novecento. È infatti da allora che si è manifestata con più forza la crisi dello Stato-Nazione (con le entità statali che tendono a diventare mera realtà amministrativa, limitandosi, in questo modo, a fare amministrazione e non politica), e con essa dello spazio dove vive la dialettica destra e sinistra, anche se è necessario non esagerare nel certificare la dissoluzione degli Stati, visto il ruolo di grandi potenze politico-economiche esercitato da nazioni come Cina e India, per non parlare del fatto che tutte le grandi multinazionali continuano ad avere il centro del loro potere all’interno dei confini delle nazioni facenti parte del G8.
In quest’ottica Revelli insiste molto sul cambiamento della nozione di spazio come elemento caratterizzante dell’età della globalizzazione. Uno spazio ambivalente, liquido e dai confini incerti che non facilita il ragionamento attraverso le categorie di destra e sinistra, le quali, per la loro natura, hanno invece bisogno di “stabilità spaziale”.
Del resto, oltre al mutamento della spazialità, stiamo assistendo alla crisi prepotente dell’idea di progresso. Riprendendo le riflessioni di Christopher Lasch, Zygmunt Bauman, Anthony Giddens e Ulrick Beck sulla società del rischio, l’autore analizza infatti il pensiero di chi ritiene che in questo mondo ipertecnologico sia aumentata in maniera esponenziale l’esposizione di ogni cittadino ad un rischio generato da effetti che non si possono prevedere vista l’assenza di punti di riferimento stabili. Tale situazione comporta la necessità di un ripiegamento verso “una modernizzazione riflessiva”, ovvero una rivisitazione del proprio sistema di valori che sia in grado di rispondere concretamente al presente. È in questa “società del rischio”, liquida e senza direzione che, secondo questi autori, le tradizionali categorie dello spazio sociale di destra e sinistra entrano in crisi, determinando una inevitabile rivisitazione del proprio sistema valoriale. Tutto questo mentre cresce a dismisura il potere dei media capaci, da soli, di creare e disfare rapidamente nuovi spazi sociali e di dettare i temi dell’agenda della politica generando sempre più una “privatizzazione dello spazio politico” che determina un ulteriore isterilimento della vita pubblica, con il cittadino spettatore che non è più protagonista delle dinamiche sociali ma le subisce vedendo solo ciò che la televisione gli trasmette (su questi temi si è soffermato recentemente, anche se con uno sguardo più interno agli Stati Uniti, il premio Nobel Al Gore nel suo stimolante saggio L’Assalto alla Ragione, appena edito da Feltrinelli). Ma allora, di fronte a questo smarrimento, c’è ancora posto per la sinistra e per la destra? O dobbiamo rassegnarci ad una politica simile ad un grande blob onnicomprensivo dove le differenze si stemperano sull’altare di una modernizzazione neutra? Certo, la sinistra rischia seriamente di smarrirsi e di perdere le sue ragioni, specie se, come in Italia, non riuscirà ad essere altro rispetto ad un riformismo senza progetto (quello del Pd) o un radicalismo senza politica (quello portato avanti da molti soggetti a sinistra del partito guidato da Veltroni). Tuttavia, anche se in crisi, appare assai improbabile che il confronto politico non si declini, anche in futuro, secondo il binomio destra/sinistra, non foss’altro perché le grandi disuguaglianze su scala mondiale (a partire dalla grande disuguaglianza tra Nord e Sud del mondo) sono assai lontane dall’essere superate. Per non parlare del fatto che rimane centrale la questione del lavoro e del suo rapporto con il tema della conoscenza, così come quella di una democrazia che in questi anni è divenuta sempre più oligarchica e verticale.
Rimane però il fatto, dimostrato anche dal volume di Revelli, che lo smarrimento della politica contemporanea è un fenomeno serio e che pertanto è necessario non sottovalutare la crisi in atto se si vogliono migliorare identità capaci di confrontarsi con le mille sfaccettature della modernità senza, per questo, subirne passivamente gli effetti.