Il silenzio e la responsabilità storica individuale
16 Maggio 2017Greta
(20 maggio 2017) Il manifesto sardo sostiene la lotta dei prigionieri palestinesi che hanno lanciato uno sciopero della fame di massa per protestare contro le drammatiche condizioni umanitarie nelle carceri israeliane. Pubblicheremo una serie di interventi e riflessioni a sostegno di questa campagna (Red).
Non mi spiego ancora quale sia il meccanismo per cui si sposino delle cause, piuttosto che delle altre; per cui ci si senta più vicini ad alcuni gruppi sociali piuttosto che ad altri o perché si intraprendano delle battaglie, talvolta così lontane dalle nostre case, e non altre.
Non so spiegarmi la tanto acclamata universalità dei diritti umani quando poi, magari inconsciamente, si operano certe scelte esclusiviste secondo le quali una causa è più importante dell’altra; un gruppo umano vale più di un altro. Sarebbe riduttivo, e di certo la nostra intelligenza ne risentirebbe, se queste scelte fossero dettate solo dalla risonanza mediatica che una causa o un evento producono o sulla circolazione delle informazioni. Vorrebbe dire che più siamo bombardati da una notizia più siamo suscettibili e, invece, se meno la sentiamo più ce ne infischiamo.
Questo mese di sciopero della fame dei prigionieri palestinesi detenuti nelle carceri israeliane è passato in sordina, non solo dei media quanto di tutta la comunità politica nazionale e internazionale. Se non fosse per le organizzazioni e le comunità, studentesche e di volontariato che cercano, con propri e limitati mezzi di dare voce a chi la voce, in realtà, già ce l’ha. Si sceglie il silenzio quando si ha qualcosa di scomodo da dire o quando si vuole nascondere qualcosa. Ed è così che il silenzio diventa un’arma di manipolazione di massa.
Sono cose scontate, sicuramente qualcuno ha riflettuto sul potere politico del silenzio in altre situazioni e in maniera più profonda della mia. Ma se mi fermo a pensare alla protesta, allo sciopero della fame, a tutto questo che da più di un mese i prigionieri stanno portando avanti con le loro forze e con la forza delle proprie famiglie, è come se il silenzio assumesse un colore e una forma: quelle di una cella che io posso solo immaginare. Una cella buia, senza luce, piccola, dove non c’è nulla, se non una brandina. Forse.
Uno spazio chiuso, soffocante in cui quel silenzio assordante rimbomba e riecheggia, e si fa spazio e pervade la stanza. Si mischia col battito di un cuore affaticato e con la speranza. Adesso che lo sciopero della fame sta entrando in una fase critica e che circa un centinaio dei prigionieri sono stati trasferiti in ospedale, chi mantiene il silenzio non è solo complice. È responsabile.
Responsabile di aver effettuato quella scelta di campo per cui qualcuno è più importante di qualcun altro. La responsabilità di aver ignorato o sottovalutato il pericoloso momento storico che si sta attraversando. Non basterebbero due righe per filosofeggiare sul concetto di libertà. Non è neanche mia intenzione scadere in inutili teorie complottiste. Però, se questo può spingere a uscire dal quel nido di egoismo e di indifferenza che ci stiamo costruendo, è bene ricordare che le pratiche israeliane vengono ritenute un modello di sicurezza anche dai nostri governi.
Mai come oggi il pensiero di Edward Said risulta essere così contemporaneo: il solo pronunciare la parola ‘palestinese’ è una accusa alla politica e alle azioni dello stato di Israele; ma l’ostacolo maggiore per superare questo spesso muro di indifferenza sembra essere quel consolidato “atteggiamento culturale nei confronti dei palestinesi che deriva da antichi pregiudizi occidentali contro l’Islam, gli arabi e l’oriente. Un atteggiamento che ci ha disumanizzato, riducendoci all’appena tollerabile status di seccatura”.