Una su tre

1 Dicembre 2007

DONNE
Manuela Scroccu

Essere donna è una colpa che ancora si sconta: con la discriminazione sul posto di lavoro, con le botte, con la violenza sessuale, a volte con la morte. Questa storia comincia nella provincia di Salcedo, a Ojo de Agua, Repubblica Dominicana. Comincia in una terra impoverita e vampirizzata dalla feroce dittatura di Trujillo, con la fame e la miseria dei contadini. Comincia con tre giovani donne impegnate nella lotta per la libertà, che tutti chiamano “farfalle”.
Comincia il 25 novembre 1960, quando Minerva e Maria Teresa Mirabal decidono di andare a trovare i loro mariti, imprigionati in quanto oppositori del regime, accompagnati dalla sorella Patria. Gli agenti del Sim (Servizio Militare d’Intelligenza), su ordine del dittatore, le intercettano, le fanno scendere dall’autoveicolo nel quale stavano viaggiando e le portano in un canneto vicino. Qui le torturano, le stuprano, le massacrano di botte e, infine, le strangolano. Poi, nel tentativo di occultare l’orrore di quella furia, simulano un incidente rimettendo quei corpi straziati nell’auto, che poi fanno precipitare da un burrone. Questa fu la fine delle tre sorelle Mirabal, che hanno detto addio alla vita con una morte orrenda e crudele in una strada buia e isolata. Scontarono la colpa di sfidare la dittatura, certamente, ma il loro corpo fu violato con ferocia perché la loro stessa esistenza era un insulto ad un sistema di valori che imponeva alle donne di soffrire in silenzio, comparse della storia vestite di scuro, pronte a piangere i morti voluti da un potere maschile e incomprensibile, ma incontestabile, con lo sguardo dolente delle tanti madri dell’ucciso di cui è piena la storia dell’arte.
Quando nel 1999 l’Onu decise di istituire la Giornata internazionale per il no alla violenza contro le donne, fu questa la data scelta. Una giornata per esigere dai governi di tutti i paesi politiche attive contro la violenza sistematica di cui è vittima il 52 per della popolazione mondiale: le donne. Una giornata per riflettere, senza lasciarsi stordire dai numeri che le organizzazioni internazionali sbattono in faccia ogni anno al mondo distratto.
Una su tre. Questa è la percentuale di donne che, secondo l’Unifem (Fondo delle Nazioni Unite per la donna), ha subito almeno una volta nella sua vita una violenza fisica, sessuale o psicologica.
Ma questo è purtroppo anche il giorno in cui contiamo le croci: quelle delle 430 donne orrendamente assassinate e almeno 600 (ma qualcuno parla di migliaia) scomparse, dal 1993 a oggi, a Ciudad Juarez, Messico; delle 17 giovani di Alto Hospicio, Cile, sequestrate, violentate e assassinate tra il 1998 e il 2001; delle migliaia di donne trovate strangolate, straziate e mutilate in Guatemala. E con loro le croci di tre milioni di donne che, ogni anno, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, vengono uccise per violenza in famiglia, stupro, prostituzione, fino alla violazione dei diritti sessuali con aborti forzati, sterilizzazioni involontarie, mutilazioni dei genitali, crimini d’onore. Tre milioni. La teorica, antropologa e deputata messicana Marcela Lagarde ha utilizzato per la prima volta il termine “femminicidio” per parlare di vero e proprio genocidio contro le donne. Questo termine non include solo l’atto dell’assassinio in sé, e quindi l’esecutore materiale dell’omicidio, ma anche la struttura statale e giudiziaria che avvalla, nasconde, o comunque è latitante, nei confronti di questo crimine.
Una realtà che non risparmia nessun continente, nessuna nazione, che non conosce differenze culturali e sociali, se è vero che l’ultimo rapporto dell’Istat, presentato il 21 febbraio di quest’anno e commissionato dal Ministero per i diritti e le pari opportunità, ha fotografato un’Italia in cui 6 milioni 743 mila donne dai 16 ai 70 anni sono state vittime di violenza fisica o sessuale nel corso della vita, circa un milione di donne ha subito stupri o tentati stupri, mentre 3 milioni 961 mila sono state vittime di violenze fisiche. Il nemico non è quasi mai sconosciuto, non è l’“uomo nero”. Il pericolo viene, invece, dai familiari, mariti e padri, e poi dagli amici, dai colleghi di lavoro e di studio, dai vicini di casa.
“La violenza degli uomini contro le donne comincia in famiglia e non ha confini”: con questo striscione si è aperta, a Roma, la manifestazione del 24 novembre contro la violenza sulle donne. Ancora una volta, però, i titoli sui giornali se li sono presi le Mare Carfagne, le ministre (orrore!) fischiate e indignate (ebbene si, signore e signori, bisogna che lo capiate, la contestazione quando è pacifica non solo è legittima ma è anche salutare). Il corteo esprimeva dissenso contro una classe politica che si è lasciata sedurre troppo facilmente, anche a sinistra, dall’equazione violenza sulle donne uguale problema di sicurezza, che ha spacciato provvedimenti xenofobi quali le espulsioni di massa come un esempio di politica a favore della sicurezza delle donne.
Ma la violenza contro le donne non è un problema di ordine pubblico, non è un fatto di cronaca nera, non è un fatto privato: è una violazione dei diritti umani. Anzi “la violazione dei diritti umani più vergognosa perché non conosce confini, geografia, cultura o ricchezza. Fin tanto che continuerà, non potremo pretendere di aver compiuto dei reali progressi verso l’uguaglianza, lo sviluppo e la pace”. Così parlava l’allora segretario generale delle Nazioni Unite, Kofi Annan, in occasione della cosiddetta Assemblea del Millennio, che nella sua dichiarazione finale poneva la lotta alla violenza delle donne come uno degli obiettivi centrali delle Nazioni Unite. E’ stato l’impegno delle donne nelle istituzioni internazionali, nei governi, nelle associazioni, quello che ha permesso di vincere le resistenze di chi considerava la violenza sulle donne come un fatto che riguardava esclusivamente la responsabilità dei singoli individui, non l’autorità statale. Oggi gli strumenti internazionali esistenti, con le titubanze e i distinguo tipici del linguaggio del diritto internazionale, sono concordi nel ritenere esistente un vero e proprio obbligo per gli Stati, e quindi una loro responsabilità, di esercitare la debita diligenza nel prevenire, indagare e punire gli atti di violenza, siano essi perpetrati dallo Stato o da soggetti privati, e di fornire protezione alle vittime. Sembra poco, non lo è. I diritti umani hanno validità giuridica, oltre ad avere forza morale. Vale la pena sfilare, marciare, lottare unite per vedere affermati questi principi nel grande “villaggio globale”. Nel nome di Minerva, Maria Teresa, Patria e di tutte noi.

1 Commento a “Una su tre”

  1. lou camboni scrive:

    forza donne unite contro una cultura maschilista e machista!

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