Caro el Che
1 Novembre 2017[Graziano Pintori]
Caro el Che,
quando ho iniziato a conoscerti ero uno studentello dallo scarso profitto: marinavo la scuola, pomiciavo nei ciak/club, fumavo di tutto e mi piaceva partecipare agli scioperi, allora d’autunno assai frequenti. Dopo mezzo secolo dalla tua scomparsa ti scrivo perché sento la necessità profonda di dirti che i sogni, alimentati anche dalla tua epica figura, non esistono più: è stato atteso invano l’uomo nuovo, l’autodeterminazione dei popoli non si è realizzata e i campi di battaglia sparsi nel mondo non si sono mai visti. Inoltre, gli autunni caldi non ci sono più, sindacalmente sono freddi sotto un sole anomalo e rovente.
Caro el Che, il mondo allora era grande, sconfinato come l’universo. Le macchine per scrivere Olivetti oggi sono un mero ricordo, così i postalini, che trasportavano persone, corrispondenza e pacchi postali, sopravvivono solo nel mio lemma. Tutto è cambiato. Tutto è in tempo reale. Oggi il mondo è molto più piccolo, tutto si è ristretto: informatica e telematica hanno trasformato lo spazio e il tempo in misure virtuali. Internet, PC, web, link, rete browser, client-server, W3 ecc, sono alcuni termini dell’onda d’urto elettronica che sta modificando, su scala planetaria, i modelli socio economici, politici, culturali, umani. La tecno–scienza, in molti casi, va oltre i presupposti etico-morali.
Caro compagno, è in atto una rivoluzione che nulla ha da spartire con quella che tanto sognammo, quell’odierna mira direttamente alle coscienze per adattarle alle esigenze del nuovo capitalismo finanziario. Infatti, le attese sulla solidarietà dell’internazionalismo proletario sono state spazzate via, l’imperialismo non si chiama così, anzi non esiste nei termini come lo intendevamo in quegli anni: oggi c’è la globalizzazione mi chiedi della globalizzazione? Io a te? Vabbè con imbarazzo nei tuoi confronti, tento di illustrartela a modo mio. Ricordi la foto intensamente espressiva che ti cliccò Alberto Korda? Quando su un palco partecipasti a un’orazione funebre nel cimitero dell’Avana? Quella foto è diventata un’icona – pop stampata su bandiere, berretti, accendini, portachiavi, maglie, tatuaggi, ecc. è divenuta merce che puoi trovare in Africa e nel Regno Unito, nell’Himalaya e in Australia.
È giusto informarti che sull’immagine ci ha lavorato il tuo coetaneo Handy Warhol, ti ha messo al fianco di Marilyn Monroe e ai barattoli di minestra Campbell, di Mao Tse Tung e alla Coca Cola e ai biglietti da un dollaro. Tutto questo sai perché? Perché l’arte dovrebbe essere consumata come qualsiasi prodotto commerciale. Adesso, per arrivare in modo spiccio al significato di globalizzazione ti dico: l’espressione artistica di Warhol era, e rimane, pura provocazione, mentre per la globalizzazione è mercificazione pura. Tanto è che svuotare di consistenza e di significato la storia, la cultura, il sapere, di cui la tua immagine è ancora un esempio, per il mercato del consumo è la prassi. Sicuramente avrai già intuito che il sistema finanziario è prevalso sull’economia reale, mentre la forza lavoro è divenuta merce.
L’uomo, gli operai, i lavoratori, gli oppressi e gli sfruttati in genere, ossia il cuore dei militanti della sinistra, sono stati incastonati tra i denti della ruota produttiva, perciò destinati a consumarsi come un qualsiasi prodotto. Tal fatta d’uomo, caro Ernesto, deve competere con la tecno/robotica che produce plus valore instancabilmente, senza ricevere salario. La domanda, a questo punto, da parte tua è spontanea: L’uomo nuovo, precarizzato e proletarizzato, potrà ancora avere il tempo per sognare? Si ti rispondo, fino a quando i sogni con le coscienze non svaniranno in un microchip. Dici che è fantascienza? Forse però ti assicuro che essa è nel cortile di casa, a pochi passi da noi.
Adesso, devo dire, per parlare di te, che da quando iniziasti ad approfondire la conoscenza della matematica per accedere con più agilità ai principi che governano l’economia mondiale, eri diventato più pericoloso delle tue azioni di guerriglia, e di questo ne eri ben consapevole. Tale conoscenza ti permise di capire gli ingranaggi economici/militari e politici governati dalle potenze del pianeta, che, di fatto, decidevano le sorti d’intere categorie di persone e di popoli, destinandoli alla povertà, allo sfruttamento, all’emarginazione dal contesto civile e umano.
Avevi assunto chiaramente che l’imperialismo non fu esercitato solo dal campo avverso al tuo, ma anche, avvalendosi dei principi del capitalismo, dal campo amico. In pratica, caro fratello, la tua coerenza, sensibilità e sete di giustizia non ti permisero, in termini diplomatici, di risparmiare forti critiche, indistintamente, sia al blocco sovietico sia a quello degli americani yankee. Infatti, un’altra cruda verità è che l’autodeterminazione dei popoli persiste nell’utopia pura. Il colonialismo conosciuto in quegli anni non c’è più, però è sopravvissuto lo sfruttamento economico e militare, ancora più subdoli e voraci.
Tutto continua a essere sottoposto alla verifica e all’influenza del capitalismo finanziario, che maneggia i grandi blocchi dello scacchiere politico internazionale. A proposito, t’informo che anche la Cina, quella di Mao Tse Tung e della rivoluzione culturale, rappresenta una delle grandi “famiglie” potenti del pianeta, ciò da quando ha adottato il capitalismo di stato come leva per uscire dal feudalesimo economico e aver abbandonato il comunismo alle ortiche. Fare quello che facesti tu, caro compagno Ernesto, cioè attaccare e contestare gli equilibri del potere globale, creò un vuoto attorno alla tua figura di combattente, se vuoi una sorta d’isolamento dal contesto geo-politico ufficiale, o, se preferisci, quel vuoto che la tua stessa Cuba non riuscì a colmare. In pratica, caro el Che, moristi in solitudine seppure con le armi in pugno assieme ad altri compagni contro l’oppressore. Cadesti fiero e orgoglioso anche se il tuo corpo fu straziato e svillaneggiato dall’ottusità dei militari boliviani.
Caro compagno e fratello, sai bene che da quando sei comparso, cinquant’anni fa, di acqua sotto i ponti ne è passata, perciò non posso riassumere tutto in una volta. Adesso devo andare, con l’impegno di riscriverti per informarti sullo stato del nostro pianeta e, in particolare, sulle sorti riservate a miliardi di esseri umani.
Ti lascio, portandomi un certo senso di colpa scaturito dal fatto di essere stato duro nello scrivere, però ti garantisco che l’insegnamento sulla tenerezza persiste nel mio profondo.
Hasta siempre, Comandante.