Cosimo Quaratino: Pizzi pizzi Trangola
1 Dicembre 2017[Claudio Natoli]
In un continuo intreccio tra l’io e gli altri, l’A., militante politico nella sinistra della generazione degli ’60 e ’70, ripercorre la propria autobiografia attraverso una rete fittissima di persone e di ricordi per consegnarla, ormai nonno, alla nipote Matilde, senza rimpianti, ma con l’intento dichiarato di “meglio camminare nel presente”, nell’epoca di Facebook. Un’epoca in cui il senso comune dominante sembra frantumare la realtà politica e sociale insieme con le esistenze individuali e cancellare il senso stesso della storia sia come patrimonio di esperienze e di conoscenze del passato, sia come presupposto per la progettazione del futuro. Come osserva l’A. nel capitolo finale, ciò configura l’ombra di una vera “crisi di civiltà”, nel momento in cui, di fronte all’irrompere della globalizzazione neoliberista, si sono affermati processi di concentrazione oligarchica dei poteri che tendono a vanificare le basi stesse della democrazia, nonché meccanismi parossostici di sfruttamento (e di alienazione) che rischiano di distruggere l’intera sfera dei diritti di cittadinanza così come si era affermata in Europa dopo la liberazione dal nazifascismo, nonché la nozione stessa del bene comune:
“Per come la vedo io –scrive- il tempo di oggi[…] è purtroppo anche quello dell’ambiente planetario malato, della diseguaglianza crescente che umilia la stragrande maggioranza delle persone, dei conflitti armati che sfregiano re spezzano le vite a varie latitudini […]
Sarà un caso che ciò accade nel tempo della globalizzazione, in cui i ceti dominanti –sempre più ristretta casta- hanno raggiunto un grado di potere incontrastato sui destini dell’umanità promuovendo mercati senza regole, che governano le ricchezze del mondo.
A me pare che tutto ciò abbia steso sul presente e sul domani un’ombra terribile, anche perché non s’intravede il filo relazionale di un’autentica civiltà, che possa tenere assieme i popoli e gli stati” (pp. 443-44).
Questa situazione appare tanto più grave, nel momento in cui, aggiunge, “è divenuto sempre più difficile interpretare e contrastare tale regressione”, anche perché la “sinistra di governo” ha smesso “di proporre strumenti per leggere la realtà e per trasformarla a livello sia nazionale sia sovranazionale”, ed anzi “si è adattata alle dinamiche di mercato, ne scimmiotta il lancio di prodotti comunicativi tanto frequenti quanto semplicistici” e sempre più rinuncia a “un pensiero lungimirante”, nel quadro di una gestione tatticistica, cinica e trasformistica del potere (pp. 445-46). In questo contesto, due sembrano le “lezioni di vita” che l’A. intende suggerire alla riflessione dei giovani del nuovo secolo. La prima è di non avere mai “smarrito lo sguardo che prova e spingersi più in là” (p. 446). La seconda è la consapevolezza che “ essere cittadini non vuol dire esprimersi soltanto il giorno del voto […] ma anche partecipare direttamente alla vicenda sociale e politica” (p. 174).
Il libro è articolato in capitoli brevi, ciascuno dedicato a persone, familiari e non, e a eventi pubblici e privati non necessariamente ordinati in senso cronologico, al cui interno i ricordi, messi in relazione gli uni con gli altri, costruiscono la trama stessa delle riflessioni sul passato e sul presente, con una capacità di rievocare in pochi tratti sensazioni e atmosfere in una scrittura ricca di brillanti venature letterarie. La prima parte è dedicata alle radici, all’infanzia e alle prime esperienze di vita nella Taranto vecchia e popolare che oggi sembra essersi dissolta. Qui, accanto a molteplici figure familiari, a personaggi e luoghi emblematici, spiccano le figure dei due nonni Lillo e Mimì, l’uno affermato avvocato di famiglia borghese illuminata, di tradizioni laiche e risorgimentali, con una forte tempra morale antifascista, l’altro di estrazione proletaria, operaio meccanico, autodidatta capace di mille invenzioni, anarchico-comunista, ex ferroviere licenziato e antifascista militante, che disvela al nipote la “capacità inventiva dell’uomo”, lo introduce all’immaginario del cinema e ai segreti della fotografia, gli fa conoscere i siti e gli ambienti popolari della città vecchia. C’è un capitolo finale molto bello, in cui, in un continuo e partecipato flash-back tra passato e presente, l’A. ripercorre le vicende di Taranto vecchia, con i suoi vicoli e i suoi passaggi sotterranei, con i suoi cortili, i lavatoi, le botteghe artigiane e i pescatori, i luoghi di incontro e del ricorrente “sovversivismo” popolare che oggi non esistono più, in uno scenario di degrado che investe nei nostri giorni gli stessi simboli della modernità industriale.
E poi la scoperta del più vasto mondo all’inizio dell’adolescenza, l’incontro (a lungo tenuto nascosto ai genitori) con la politica attraverso la scuola del PCI a Roma e la sua non ancora estinta funzione emancipatrice delle classi lavoratrici, le lotte per la casa e i contatti quotidiani con gli abitanti della Bufalotta e della borgata sull’Aniene, sino ai movimenti degli studenti degli anni ’60: l’alluvione di Firenze, il nuovo protagonismo delle nuove generazioni, il giornale studentesco Il Tamburo al liceo Orazio (erano i tempi del processo alla Zanzara e ai ragazzi del liceo Parini di Milano) e la mobilitazione antifascista all’università in occasione dell’uccisione di Paolo Rossi (c’è una mirabile rievocazione della giornata dei funerali, del silenzio assoluto che fu capace allora di mantenere una “folla straripante”, quale contrasto con gli sgangherati applausi che funestano, anche nelle situazioni più tragiche, le cerimonie funebri dei nostri giorni):
“Sembra impossibile –scrive- che una folla straripante possa mantenere un silenzio assoluto, che a me sembra carico di rispetto e, insieme, di preoccupazione. Poi la bara viene portata a spalla dai compagni di corso di Paolo Rossi fino al carro funebre e la gente prende la forma di un fiume gonfio, lento, sicuro, che muove verso La Sapienza e sfocia a delta sul piazzale guardato dalla statua della Minerva.
Il professore Valter Binni docente decano di Letteratura Italiana, e autore di una Storia della letteratura sulla quale stiamo studiando al nostro liceo, tiene l’orazione funebre parlando dalla scalinata del Rettorato. In questi giorni l’occupazione dell’università intende rivendicare una scuola aperta anche ai figli delle classi più povere. E’ un’occupazione pacifica, civile e democratica, è l’occupazione dei trenta e lode! E così le destra romana è servita. E anche Il Tempo, che ogni santo giorno dipinge la lotta studentesca come una sorta di calata di barbari.
Torno a casa che ormai è buio, con in petto commozione e fiducia. Per la prima volta ho visto tanto popolo che si muove con identici sentimenti come fosse una sola persona, in un’occasione civile e politica al tempo stesso”.
Non ultima, tra gli eventi di questi anni, è qui ricordata la nascita del Circolo culturale di Monte sacro, la cui lunga storia, lo diciamo tutti con una punta di orgoglio, si parva licet, è giunta sino ai giorni nostri e ci darà ancora, ne sono sicuro, tante occasioni per continuare a ragionare con la nostra testa e a progettare un futuro diverso. Ma vorrei anche aggiungere che, senza il complesso intreccio di queste esperienze, il 1968, l’anno degli studenti, sarebbe del tutto incomprensibile e che questo libro costituisce un ottimo esempio di come la scrittura, per usare le parole di Mimmo, possa essere in questo senso “levatrice della memoria”.
In un tempo in cui la rivoluzione liberatrice sembrava a molti imminente, la leva per la trasformazione del mondo privilegiata nel libro sembra essere la lotta di liberazione antimperialista, a cominciare dalla guerra del Vietnam e dal suo straordinario esito vittorioso e dal vastissimo moto di autentica solidarietà internazionalista che tutto ciò sollevo nei più diversi paesi del mondo. Sul filo della memoria queste vicende sono rievocate sotto la lente di ingrandimento della FGCI romana, una FGCI sui generis, anch’essa, potrebbe dirsi, precorritrice e partecipe dello “spirito” del ’68: così rivivono le immagini delle fontane di piazza Navona, piazza del Popolo, piazza di Spagna ricolme di schiuma rosso sangue, dello striscione Vietnam libero issato con uno stratagemma sulla sommità della colonna Antonina di fronte alla sede del governo in occasione della visita del ministro della Difesa americano Humphrey, oppure la manifestazione silenziosa dei giovani comunisti romani davanti ai cancelli della sede diplomatica dell’URSS contro il soffocamento della Primavera di Praga, con lo striscione con la scritta Viva il socialismo dal volto umano. Tutto ciò, naturalmente, senza dimenticare il ruolo simbolico del “Che”, le lotte del popolo palestinese, il crollo dell’impero portoghese con la rivoluzione dei garofani del 1975: tutti eventi che hanno visto l’A. impegnato in innumerevoli azioni di sostegno e di solidarietà e anche in iniziative politiche e giornalistiche di indubbio rilievo. Il filo della continuità, nella memoria retrospettiva, sembra in queste pagine prevalere sulla sottolineatura dei momenti anche traumatici di rottura, come avvenne in occasione della radiazione dal PCI e nell’adesione al gruppo del Manifesto.
E’ impossibile qui soffermarsi sulla miriade di episodi che rendono intensa e coinvolgente la costruzione narrativa: deve essere comunque rilevato che essa sfugge ad ogni tentazione di protagonismo e, soprattutto, più che soffermarsi sulla frequentazione di figure anche di primo piano della politica, privilegia in una “storia corale” i ritratti poco conosciuti di militanti politici di base, nei loro aspetti umani e caratteriali, delle donne e degli uomini “in carne e ossa” che fecero del PCI e delle forze della sinistra le principali protagoniste della costruzione della democrazia italiana nel primo trentennio repubblicano. Tra questi mi limiterò a ricordare almeno la figura di Lello Perugia, ebreo di San Lorenzo, combattente partigiano, deportato e sopravvissuto ad Auschwitz con Primo Levi, esponente dell’ANPI e dell’ANED, instancabile testimone della tragedia della Shoah contro ogni negazionismo, che nel 1986 diceva di se stesso: “Io mi sento cittadino del mondo, mi sento zingaro, mi sento moro, mi sento pellerossa, mi sento ebreo” (p.427).
Anche il distacco dall’esperienza del Manifesto per le sue ricorrenti ricadute, si potrebbe evincere, di tipo minoritario, non lascia spazio ad abiure o a opposte scelte di campo, quanto piuttosto a un ridimensionamento della militanza attiva destinata peraltro a riattivarsi in forme diverse fino ai nostri giorni: c’è una magnifica esperienza di volontariato ancora oggi in corso in un’isola della Guinea Bissau, che, lungi dal contraddire, a me pare si iscriva pienamente nel percorso di vita di Mimmo. Tuttavia è importante sottolineare come a ciò si sia accompagnato un “anomalo” coinvolgimento etico e civile nel ruolo di funzionario e poi di dirigente in un Ente della pubblica amministrazione. Qui la “lezione di vita” appresa nei movimenti degli anni ’60 e ’70 si traduce, non sembri un paradosso, non solo nel rifiuto di logiche carrieristiche, di sudditanze politiche, di servili conformismi, e comunque di omologarsi in “una logica corporativa, di casta”, ma anche in un’assunzione di responsabilità per la migliore rispondenza alle finalità dell’Ente, per la qualificazione del personale, per i migliori rapporti con gli utenti, per l’impiego di nuovi strumenti formativi e informativi, in una parola per “dare un senso al fare” nel lavoro comune nello spirito di servizio, di dignità e onore previsto dall’art. 54 della Costituzione. E qui l’A. ha il merito di gettare luce su un aspetto della “lezione civile” del ’68, perlopiù ignorato nel clamore pubblicistico e mediatico, e che invece ha interessato il percorso successivo di una parte non irrilevante di quella generazione e che ha animato sino ad oggi innumerevoli esperienze in ambiti istituzionali e sociali ancora vitali e costituisce un antidoto al degrado politico, sociale, culturale e morale, che, giorno dopo giorno, minaccia di travolgere il nostro paese.