L’incubo della realizzazione del sogno europeo
1 Gennaio 2018[Gianfranco Sabattini]
I risultati elettorali verificatisi di recente in molti Paesi europei non “spengono le preoccupazioni di quanti credono nel possibile avanzamento del processo di integrazione dell’Europa. “Dopo anni di retorica europeista, la retorica antieuropeista, ancora più violenta, domina la scena”; così afferma Luigi Zingales, in “Europa o no. Sogno da realizzare o incubo da cui uscire”. Il libro, per quanto sia comparso in libreria qualche tempo fa, conserva ancora nelle argomentazioni di fondo la sua validità, alla luce delle situazioni politiche che si stanno profilando all’interno dei principali Paesi europei; situazioni che si preannunciano non certo favorevoli alle riforme dei Trattarti, che molti, ad iniziare da Emmanuel Macron, propongono, perché il processo di integrazione politica dell’Europa possa riprendere il cammino interrotto dalla Grande Recessione, dei cui effetti molti Paesi membri del progetto europeista, tra i quali l’Italia, stentano ancora a liberarsi.
Al centro delle proposte di riforma c’è il problema delle moneta unica, l’euro, i cui costi e benefici, per quanto difficili da valutare, per i Paesi che l’hanno adottato, afferma Zingales, sono stati diversi, a seconda delle situazioni in cui ogni Paese si è trovato, ma anche del modo in cui lo stesso si è avvalso dei benefici, quando questi si sono manifestati. Per capire dove stanno i motivi per cui l’euro è al centro delle apprensioni di molti, occorre – a parere di Zingales – avere presenti i processi politici che dai Trattati degli anni Cinquanta di Parigi e di Roma si è giunti sino a quello di Maastricht; al riguardo, Zingales ha l’intento di rimuovere l’”indifferenza e l’ignavia”, sempre presenti nel dibattito sull’euro; che si sia pro o contro la moneta unica europea, egli intende fornire “non solo validi argomenti a favore della propria posizione, ma soprattutto stimoli di riflessione”; ciò perché in ballo – egli afferma – c’è “più che un’idea: c’è il destino di un Paese e di un intero continente”.
Nei discorsi ufficiali, si sottolinea il fatto che l’idea di Europa sia nata per merito soprattutto di due politici francesi, Robert Schuman e Jean Monnet; entrambi motivati dalla necessità, dopo due guerre mondiali, di “eradicare per sempre la guerra dall’Europa”. Ispirata da questo sogno, la politica francese si è mossa inizialmente – afferma Zingales – “lungo tre direttive: la prima era quella di impedire un nuovo rafforzamento della Germania; la seconda era finalizzata a realizzare un’adeguata “equidistanza” tra Inghilterra e Stati Uniti d’America, da un lato, e l’Unione Sovietica, dall’altro; la terza direttiva aveva per scopo il rafforzamento economico e militare della Francia nei confronti della Germania.
La strategia politica fondata su queste tre direttive ha trovato un ostacolo pressoché insormontabile nel “radicalizzarsi della Guerra fredda”, che ha imposto obtorto collo il rafforzamento, quanto meno economico, della Germania, in considerazione anche della sua posizione strategica rispetto alla Cortina di ferro, che divideva gli schieramenti contrapposti: quello delle democrazie popolari dell’Europa orientale, egemonizzato dall’URSS e quello delle democrazie occidentali egemonizzato dagli USA. L’opposizione dell’America alla strategia diplomatica francese, ha indotto Monnet a cambiare la sua opposizione intransigente al ricupero economico della Germania in un “piano di collaborazione” tra tutti i Paesi occidentali, inclusa la stessa Germania. Da qui, secondo Zingales, è nata nel 1950 la proposta di Schuman di “creare una singola autorità […] per controllare la produzione del carbone e dell’acciaio in Francia e Germania”.
La proposta di Schuman è stata accolta immediatamente dalla Germania, che l’ha valutata come la via per riaccreditarsi a livello internazionale, tanto più che Italia, Belgio, Olanda e Lussemburgo accettavano anch’essi di aderire. Nel 1951, è stata, così creata la Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio (CECA), che ha dato luogo alla creazione della Comunità Europea, prima, e all’Unione Europea, dopo. Ma i francesi, malgrado l’impegno profuso nella costituzione del nucleo originario del “progetto europeo”, la CECA, per ragioni politiche, ma soprattutto per timore della Germania, ne hanno boicottato – afferma Zingales – “ogni ulteriore sviluppo. Infatti, gia nel 1952, quando i sei Paesi, che avevano firmato il Trattato istitutivo della CECA, hanno firmato il Trattato istitutivo della Comunità Europea di Difesa (CED), che prevedeva tra l’altro anche l’istituzione di una comunità politica europea, il Parlamento francese non ha ratificato quel Trattato.
Tuttavia, osserva Zingales, per quanto “l’Unione Europea non abbia quelle nobili origini che oggi tutti vogliono attribuirle, nulla toglie al fatto che sia stata un’idea geniale”, che ha contribuito alla crescita economica e sociale dell’Europa; però, se non si hanno ben chiare le origini, non sempre collaborative, delle iniziative volte a realizzare l’integrazione europea, “diventa difficile comprenderne gli ulteriori sviluppo” e i dibattiti che di tempo in tempo si sono svolti. In particolare, diventa difficile rendersi conto del perché, nonostante il “ruolo fondamentale giocato dai politici francesi, come Monnet e Schuman prima e Jacques Delors poi, la Francia sia rimasta per lo più ambivalente di fronte al progetto di integrazione”: utilissimo in funzione antitedesca, ma valutato lesivo degli interessi nazionali quando il progetto richiedeva la condivisione del potere politico.
A parere di Zingales, dopo la mancata ratifica da parte del Parlamento francese del Trattato che prevedeva la realizzazione di una difesa comune, ma anche l’istituzione di una comunità politica europea, a rilanciare il progetto europeista è stato soprattutto Konrad Adenauer, il quale ha avuto l’intuizione di dargli un nuovo indirizzo rispetto a quello impressogli da Monnet. Il modello di quest’ultimo, che era valso a costituire la CECA, era fondato sull’istituzione di un’Autorità sopranazionale che controllasse la gestione di un comparto economico considerato strategico; il modello tedesco, invece, prevedeva la formazione di un’area di libero scambio, protetta da un un’unione doganale che avrebbe protetto le economie dei Paesi aderenti nei confronto della concorrenza dei Paesi terzi.
La Germania, secondo Zingales, avrebbe operato questa scelta “proprio per coinvolgere la Francia, riducendo il rischio di future tensioni tra i due Paesi”. Il risultato è stato la creazione del “Mercato Europeo Comune”, ma anche – chiosa Zingales – l’attuazione di “una politica agricola terribilmente protezionista”, che ha ritardato il miglioramento dell’efficienza di molte attività agricole. Tuttavia, sebbene la politica agricola europea non sia risultata ottimale, l’unione doganale ha impedito che i Paesi aderenti fossero vittime di tentazioni protezionistiche. Inoltre, dal punto di vista politico, il processo di integrazione realizzato con l’istituzione del mercato europeo comune è stato un’enorme successo, in quanto ha consentito all’Europa, non solo di vivere un lungo periodo senza guerre, ma anche di realizzare un progetto di stato di sicurezza sociale inclusivo, attraverso l’attuazione di un’estesa equità distributiva e, con questa, un sostanziale rafforzamento delle istituzioni democratiche.
Con gli anni Settanta e Ottanta, la crisi dei mercati energetici e di quelli monetari ha segnato il lento esaurirsi della capacità espansiva e propulsiva sul piano dell’integrazione del mercato unico, per cui una ripresa della crescita economica europea poteva avvenire solo attraverso una maggiore integrazione sul piano politico. A rilanciare il processo d’integrazione è stato il francese Jacques Delors, con la proposta di creare una moneta unica, l’euro, la cui attuazione e stata influenzata da “un’altra crisi franco-tedesca”, dovuta al crollo del Muro di Berlino e alla susseguente spinta a riunificare le due Germanie; un evento che – afferma Zingales – “avrebbe alterato mon solo la forza economica relativa di Francia e Germania, ma anche il loro peso politico [a favore della seconda] dentro e fuori la Comunità Europea”.
Se il processo di integrazione europeo è giudicato retrospettivamente sulla base dell’impatto che su di esso ha avuto il rapporto di natura “conflittuale” sempre intercorso, per ragioni storiche, tra Francia e Germania, si può constatare come l’incedere del processo sia avvenuto attraverso una strategia che ha assunto la denominazione di “funzionalismo”; questa strategia ha dato credito – sottolinea Zingales – alla teoria secondo la quale la creazione di istituzioni internazionali, relative ad alcuni aspetti della vita economica, “mette in moto una reazione a catena che produce ulteriori trasferimenti di funzioni [proprie degli Stati nazionali] alle istituzioni internazionali, fino a portare a una completa unione politica”. Per questa via, come pensava Monnet – ricorda Zingales – l’Europa non poteva che essere la risultante delle crisi che si fossero succedute nel tempo, per cui la realizzazione dell’integrazione europea non poteva che coincidere con la “somma delle soluzioni adottate” in occasione delle singole crisi.
Sulla base di questa teoria, a parere di Zingales, gli eurocrati, per lo più francesi, riluttanti all’idea di una reale integrazione politica del Vecchio Continente, si sono arrogati “il diritto di creare le condizioni” più rispondenti alla strategia che la classe politica del loro Paese ha ritenuto di volta in volta più appropriata sul piano dei rapporti con la Germania. E’ accaduto così che l’ideologia europeista degli eurocratti francesi abbia consolidato una strategia dell’integrazione ispirata ad una logica di tipo deduttivo; secondo tale logica, l’integrazione è stata costruita sulla base di postulati indimostrati, quali: l’”unione commerciale favorisce l’unità politica dell’Europa”, o l’”unione monetaria conduce direttamente all’unità politica”, e così via. Ciò ha portato a costruire l’Unione Europea in modo apodittico.
Zingales ritiene che un approccio empirico al processo di integrazione dell’Europa avrebbe consentito di legarlo a fatti, piuttosto che a postulati indimostrati; in tal modo, sarebbe stato possibile tener presente che l’esperienza indica che l’integrazione economica tende ad associarsi con la frammentazione e non con l’unione politica, e che le unioni monetarie seguono quelle politiche e non viceversa. Queste due tendenza si sono rivelate operanti, soprattutto in seguito allo scoppio nel 2007/2008 della Grande Recessione, con riferimento all’adozione dell’euro, intorno al quale in molti Paesi europei si è consolidata una dura contrapposizione politica tra coloro che hanno individuato nella moneta unica la causa degli effetti della crisi e coloro che, invece, vi hanno individuato uno strumento potenzialmente positivo, solo se esso fosse stato utilizzato in modo conveniente.
Uno dei benefici dell’euro – afferma Zingalea – è stato quello di “permettere ai capitali di muoversi liberamente tra i Paesi europei al fine di eliminare qualsiasi differenza nel costo del credito”. Di questo potenziale beneficio, l’Italia non ha saputo approfittare, in quanto non ha saputo utilizzare il risparmio in conto interessi sul debito pubblico per migliorare la produttività della propria base produttiva, non riuscendo in tal modo a stimolare la crescita e a migliorare il reddito degli italiani. Si è preferito, invece, imputare all’euro la responsabilità della mancata crescita e del mancato miglioramento del reddito, dando forza così all’idea di abbandonare la moneta unica e di cessare di fare affidamento sui vantaggi prospettati da un maggiore approfondimento dell’integrazione politica dell’Europa.
Zingales non condivide sia la prospettiva apocalittica di una fuoriuscita dall’euro, sia quella di rinunciare all’integrazione europea; l’Europa – egli sostiene – “è un mezzo, non un fine” e se il fine è la prosperità economica e la coesistenza pacifica, occorre allora che il processo di integrazione sia portato avanti secondo “una visione pragmatica, non fideistica”. Rispetto al passato, occorre avanzare sulla via dell’integrazione, procedendo secondo una visione dell’Unione alternativa a quella sin qui privilegiata e delegando all’Europa i compiti riguardo ai quali essa ha dimostrato di poter assicurare un vantaggio comparato. Tra questi compiti, vi è quello del “ruolo dell’Europa come faro di democrazia e rispetto dei diritti umani”, cui vanno aggiunti quello di garantire l’accesso ad un’economia di mercato affidabile, quello di realizzare consistenti economie di scala nella costruzione di un comune sistema di difesa e, infine, ma non ultimo, quello di organizzare su basi più efficienti la ricerca scientifica e il sistema universitario.
Riguardo all’euro, infine, Zingales ritiene che, sebbene esso possa avere acuito la recessione, non può essergli imputata la crisi dell’Italia, che è strutturale e si sta trascinando da anni; per questi motivi, essa non può essere risolta uscendo dall’euro. Ciò significa che finché la produttività del sistema economico dell’Italia non riprenderà a crescere, non sarà possibile competere in Europa e nel mondo; né sarà possibile sostenere il peso del debito pubblico, indipendentemente dal fatto che si resti nell’Eurozona o si decida di uscirne; infine, se la produttività mancherà di crescere, il futuro dell’Italia sarà molto instabile e problematico. Per tutte queste ragioni, il dibattito in corso nel Paese non dovrebbe concernere se uscire o restare nell’Eurozona, ma cosa occorre fare per migliorare la produttività.
Stando all’analisi complessiva che Zingales ha condotto, riguardo alle circostanze politiche che hanno favorito la nascita dell’idea di un’Europa unita, ma anche riguardo ai vantaggi che in generale l’approfondimento dell’integrazione ha offerto e può ancora offrire ai Paesi membri, può essere considerata incoraggiante l’apertura verso la ripresa del processo di unificazione politica che viene oggi dalle proposte formulate da Emmanuel Macron. Ironia della sorte, la ripresa del processo di integrazione, più che subire i condizionamenti provenienti dalla Francia, è oggi ostacolata dall’ideologia ordoliberista propria della cultura politica ed economica tedesca, denunciata recentemente anche dal filosofo Jürgen Habermas. Attualmente, perciò, si può solo sperare che la Germania cessi di comportarsi come potenza europea egemone, così come ha fatto negli ultimi dieci anni, per divenire, grazie alla sua forza economica, vero perno centrale della piena realizzazione del sogno europeista.