Giaime Pintor e il romanzo vero della sua vita
1 Gennaio 2018[Claudio Natoli]
Uno dei tratti specifici e più originali dell’antifascismo italiano fu il suo essere caratterizzato dalla confluenza di una molteplicità di componenti politiche, sociali, culturali e generazionali diverse, ciascuna con una propria storia ed una autonoma elaborazione.
Per tutti questi soggetti l’approdo unitario non rappresentò una rinuncia alla propria identità o una convergenza di segno meramente negativo, o peggio il frutto di un fantomatico complotto comunista, come non si stancano di ripetere, con grande clamore mediatico, storici revisionisti di fede “neoliberale” e pubblicisti più o meno improvvisati. Rappresentò invece la progressiva acquisizione di un programma positivo per la rinascita del paese e di un insieme di valori condivisi antitetici a quelli impersonati dal fascismo. Questo processo avrebbe trovato l’espressione più alta dapprima nel movimento della Resistenza e in seguito nell’elaborazione della Costituzione repubblicana.
Per comprendere a fondo il ruolo che spetta all’antifascismo nella storia d’Italia è imprescindibile il riferimento a un tema storico di centrale rilevanza: e cioè il riuscito incontro tra i dirigenti e i quadri delle carceri e del confino, dell’illegalità e dell’emigrazione, e la nuova generazione antifascista che si era andata formando nel corso degli anni ‘30 direttamente nel paese. Senza l’incontro tra queste due diverse generazioni la Resistenza italiana non avrebbe potuto sviluppare i suoi tratti più originali, e cioè il suo carattere di movimento di massa, i suoi contenuti di partecipazione dal basso e di profondo rinnovamento politico e sociale che ne fecero uno dei fattori determinanti della rinascita democratica e civile del paese.
E’ bene precisare che la nuova generazione antifascista che si forma in Italia avrebbe seguito un percorso che fino al 1942 si sarebbe svolto in gran parte non già attraverso un legame diretto con le forze dell’antifascismo storico, quanto piuttosto a contatto diretto con l’incipiente disgregazione delle basi di massa del regime già al tramonto degli anni ’30, o ancor più con la disastrosa conduzione della guerra e sotto l’impatto della catastrofe nazionale dell’8 settembre 1943. Per tutta una prima fase, questo processo non maturò nell’area dei gruppi dell’opposizione politica organizzata, bensì nel rifiuto dell’omologazione totalitaria, nella ricerca di spazi di libertà e di autonomia da parte di individui o di gruppi o anche in comportamenti conflittuali che si manifestavano nella “zona grigia” ai margini della legalità fascista.
In altre parole, l’antifascismo tra i giovani nella seconda metà degli anni ’30, costituì un fenomeno estremamente complesso: la partecipazione critica ai Littoriali della cultura promosso dagli stessi gruppi universitari fascisti come luogo di confronto tra istanze di “autoriforma” interna al regime (Zangrandi) e “lavoro legale” di segno antifascista (Antonio Amendola, Alicata, Ingrao), il tentativo di promuovere un ruolo autonomo e conflittuale del sindacato fascista (Eugenio Curiel), l’uso degli spazi critici presenti in alcune riviste politico-letterarie (Giaime Pintor), il distacco dalla cultura ufficiale attraverso la scoperta delle avanguardie artistiche europee e della letteratura americana della “grande crisi” (Pavese e Vittorini), la ricerca di spazi di libera autodeterminazione e il rifiuto esistenziale prima ancora che politico del fascismo (la rivolta contro l’irregimentazione dei giovani), il riemergere di forme di alterità o di antifascismo apolitico di estrazione operaia e popolare, la riattivazione dell’antifascismo classista e l’incontro con il comunismo sotto l’impatto della guerra di Spagna (Pietro Amendola, Paolo Bufalini, Lucio Lombardo Radice, Aldo Natoli), il diffondersi di nuove correnti politico-culturali e di reti interuniversitarie di giovani ( si pensi alla nascita del liberalsocialismo attorno alle figure adulte di Aldo Capitini e di Guido Calogero).
Si è qui in presenza di una molteplicità di percorsi individuali, esistenziali e di gruppo, in un plurale “lungo viaggio” che non dispone all’inizio di solidi punti di riferimento in un’opposizione politica radicata nel paese e nemmeno negli ambienti familiari, anche quelli connotati da un antifascismo passivo ispirato al messaggio crociano. E tuttavia ciò che più colpisce in questi anni è la sorprendente convergenza nelle problematiche e nelle progettazioni per il futuro tra le forze più vive dell’antifascismo all’estero impegnate nella guerra di Spagna (ricordiamo il celebre incitamento di Carlo Rosselli “Oggi in Spagna domani in Italia”) e il nuovo antifascismo che, sia pure in forme molecolari e senza un legame diretto con i partiti all’estero, stava crescendo nel paese: anche nei giovani la scelta antifascista sarebbe avvenuta all’insegna della costruzione di un fronte unitario e della prospettiva di una società profondamente rinnovata, capace di coniugare libertà politiche ed emancipazione sociale delle classi lavoratrici, sia che le fonti ispiratrici fossero la Spagna del Fronte popolare e il mito dell’URSS, sia che si proponesse una originale sintesi tra liberalismo e socialismo.
Come ebbe a scrivere Capitini, le idee nuove che avrebbero formato l’antifascismo dei giovani furono l’”unità dei popoli contro la guerra minacciata dal fascismo”, l’ “unità antifascista come unità popolare”, l’ “abbattimento del fascismo come rivoluzione di popolo non solo restauratrice delle libertà soppresse ma instauratrice di una democrazia nuova, basata sulla liquidazione dei gruppi monopolistici (spina dorsale delle tirannide e dell’imperialismo fascista) e sulla partecipazione al potere delle classi che ne erano state sempre escluse”.
E’ utile a questo punto ripercorrere i tratti salienti del “lungo viaggio” attraverso il fascismo da parte di Giaime Pintor. Giaime era originario di una famiglia sarda molto acculturata sia per parte del padre Peppino dirigente dell’Ispettorato dei lavori pubblici e cultore di musica, nonché degli zii, alti funzionari dello Stato come Pietro, generale dell’esercito, Luigicapo di Gabinetto al Ministero delle colonie e segretario della Cirenaica, Fortunato, direttore della Biblioteca del Senato e grande uomo di cultura, sia per parte della madre Adelaide, insegnante e finissima autrice di letteratura infantile. L’infanzia e la prima adolescenza Giame le aveva trascorse a Cagliari per poi trasferirsi a Roma presso la casa accogliente dello zio Fortunato e della zia Cicita. Essa costituiva allora un luogo di incontro di intellettuali non allineati, liberali e delle più diverse tendenze, nonché di autonomia della cultura dalla soffocante retorica del regime.
Lì egli contrasse le sue più importanti amicizie nella cerchia dei giovani antifascisti che appartenevano o ruotavano attorno alla famiglia Lombardo Radice, Lucio e Laura, Aldo Sanna, Aldo Natoli, e in quella dei giovani ebrei che avevano trovato o vivevano in Italia in un “rifugio precario”. Fu questo l’ambiente in cui nacque il Gruppo comunista romano che poi approdò all’attività clandestina sino agli arresti del 1939. Malgrado i vincoli sempre più stretti di amicizia che lo legavano al “Soviet romano”, Giaime rifiutò tuttavia ogni azione cospirativa, per trasferire il suo antifascismo nel modo di declinare la sua vera vocazione, quella di finissimo cultore e traduttore della letteratura tedesca, di saggista e di critico letterario.
E’ stato merito di Cecilia Calabri, nella sua bella biografia, avere ricostruito non solo con rigore e scrupolo filologico l’itinerario politico-intellettuale di Giaime, ma anche di averlo costantemente correlato alla sfera più propriamente esistenziale, nonché alla rete di giovani amici e intellettuali della “generazione senza maestri” che costituirono dopo il suo trasferimento a Roma la nuova dimensione e il cardine della sua vita. Questi giovani avevano già preso le distanze del fascismo, ma solo una minoranza di loro, come Lucio Lombardo Radice, Aldo Natoli, Pietro Amendola, aveva bruciato le tappe verso l’azione illegale, mentre altri, come Mischa Kamenetzky, Geno Pampaloni, Valentino Gerratana, Mario Spinella, avevano fatto la scelta del lavoro culturale, utilizzando gli spazi ancora aperti nelle istituzioni e nelle riviste fasciste non conformiste, ivi comprese quelle occasioni di incontro e di confronto che erano rappresentate dai Littoriali.
Certo, questa azione era di per se stessa ambivalente, passava attraverso messaggi indiretti e “cifrati”, ma permetteva di essere presenti, di incidere in qualche modo sulla realtà, di collegarsi e di dare un segnale diverso alle aspettative e alle inquietudini politiche e culturali dei giovani, nel momento in cui il fascismo era l’unica realtà che essi conoscevano e la rete dell’antifascismo cospirativo era divenuta in Italia estremamente labile. Attraverso queste relazioni è possibile accedere anche alla sfera dei sentimenti e degli affetti, a quella particolare capacità di Giaime di cogliere i lati più belli della vita, nell’arte, nella letteratura, nella natura e nei rapporti umani e tra i generi, in una parola a quel “costante piacere di vivere” che affascinava e coinvolgeva tutti i suoi interlocutori. Ma è anche possibile cogliere il trauma segnato in Giaime dall’intervento dell’Italia in guerra, e poi il crescente travaglio tra la condizione di privilegio che anche nella vita militare lo teneva lontano dai fronti tra Torino e Vichy nella Commissione franco-italiana di armistizio, e la sofferta presa di coscienza che la guerra poneva ciascuno di fronte alle proprie scelte e alle proprie responsabilità.
In Giaime il passaggio da una sorta di “antifascismo carsico” all’azione politica diretta è databile alla fase preparatoria del colpo di Stato monarchico del 25 luglio. Non è qui in discussione il suo orientamento antifascista, che era già insito nel suo carattere, nella sua precoce avversione ad ogni autorità imposta e in particolare nel suo professato odio verso la vita militare. Esso trovava espressione nel rifiuto della retorica autocelebrativa e bellicista del regime, delle esercitazioni premilitari imposte agli studenti universitari e nella spersonalizzazione dei rapporti umani tipica dei regimi totalitari. Ma di quale antifascismo concretamente si trattava?
Il punto è che quando Giaime nella celebre ultima lettera al fratello Luigi scriveva che la “guerra ha dissolto materialmente gli uomini dalle loro abitudini, li ha costretti a prendere atto con le mani e con gli occhi dei pericoli che minacciavano i presupposti di ogni vita individuale, li ha persuasi che non c’è possibilità di salvezza nella neutralità e nell’isolamento”, parlava anche e soprattutto di se stesso. Tuttavia, fino alla fine del 1942 era stata netta la sua presa di distanza non solo da quello che definiva l’antifascismo dell’astensione tipico dei vecchi liberali, ma anche dall’antifascismo cospirativo che era stato fatto proprio dai fuoriusciti e segnatamente dai comunisti e da alcuni dei suoi migliori amici e che a suo giudizio era stato segnato dall’errore di contare su una “riserva di energia politica” delle masse italiane, che in realtà non esisteva e che aveva prodotto “molte vittime” e “modesti risultati”.
Nella già citata lettera al fratello Luigi, Giaime scrisse che senza la guerra “io sarei rimasto un intellettuale con interessi prevalentemente letterari”, e che soltanto “la guerra ha risolto la situazione, travolgendo certi ostacoli, sgombrando il terreno da molti comodi ripari e mettendomi brutalmente a contatto con un mondo inconciliabile(…) A un certo momento gli intellettuali devono essere capaci di trasferire la loro esperienza sul terreno dell’utilità comune, ciascuno deve sapere prendere il suo posto in una organizzazione di combattimento”. In questo senso il passo di Giaime riassumeva in sé l’esperienza di una intera generazione. Sennonché diversi furono i percorsi individuali e diversi furono i tempi di maturazione della scelta dell’impegno politico. In Giaime questo itinerario fu particolarmente sofferto.
Dalla lettura del Doppio diario, risulta che, per tutta una prima fase, la nota dominante fu “una vita stranamente sospesa, che aspetta di orientarsi”. In seguito, dopo il suo trasferimento a Torino alla Commissione militare di armistizio con la Francia, il tratto saliente fu il tentativo di Giaime di ricostruire la continuità spezzata dell’impegno culturale astraendosi, per quanto possibile, dalla noia e dalla desolazione di un ufficio militare molto lontano dai fronti di guerra e ritrovando l’equilibrio e la pace nella cultura e nei libri. L’incontro con la cerchia degli intellettuali torinesi che ruotavano attorno alla casa editrice Einaudi, il progetto culturale di ampio respiro europeo che vi era sotteso, così contrastante con l’asservimento al regime nazista degli intellettuali tedeschi non emigrati e con la miseria di quelli che, come in Francia, avevano scelto la collaborazione con l’occupante, rappresentarono per Giaime altrettanti stimoli per riprendere quella vita “libera e intelligente” interrotta dalla guerra ed anzi per un “salto di qualità” nel lavoro culturale rivolto verso il futuro.
Ma al tempo stesso, è lecito supporre che tutto ciò abbia agito a lungo in Giaime anche come un potente fattore di rimozione che faceva crescere, come egli scriveva “il distacco fra me e il mondo che nutriva la guerra: un mondo pieno di interessi, di passioni, di gusti a me affatto estranei”. Ciò può aiutare anche a spiegare come, nel momento in cui, di fronte al prolungarsi indefinito della guerra, alle notizie dei primi amici caduti, o al dramma di quelli, come Mischa Kamenetzky, che la persecuzione antiebraica costringeva a lasciare l’Italia, egli sentì crescere dentro di sé l’”impazienza verso la vita attuale” e l’”oscurità di quella futura”, ed insieme il disagio per la sua condizione di privilegio e il desiderio di condividere la sorte dei suoi coetanei: cosicché egli richiese di essere inviato “in una qualsiasi zona di operazioni”, anche come ufficiale di collegamento sul fronte orientale. A distanza di un anno, ben più forte e sofferto sarebbe stato il rimpianto di non aver partecipato alla campagna di Russia, a cui aveva ben presto rinunciato per ritrovarsi dopo pochi mesi nella solitudine e nell’inerzia burocratica della Francia di Vichy.
Ma il punto di riferimento erano ormai le lettere ricevute dagli amici che avevano vissuto quella lacerante esperienza e la tragedia della ritirata dell’ARMIR dopo la rotta di Stalingrado, con tutto il corredo di antifascismo esistenziale e militante che ne sarebbe seguito e che avrebbe costituito per molti (emblematica la testimonianza di Nuto Revelli) un retroterra essenziale per la futura guerra partigiana. Non appare casuale allora che Giaime in una sofferta notazione autobiografica dell’inizio di maggio 1943 osservasse: “Del resto l’errore era di principio: per salvare troppo a lungo la pace sono venuto a trovarmi in una situazione dove tutti i valori per cui mi è cara la pace sono scomparsi, mentre mi è mancato l’episodio essenziale della guerra”.
Di qui discenderà il febbrile bisogno di azione che porterà Giaime a prendere contatto con gli ambienti della cospirazione monarchica e militare e a lasciare Vichy il 25 luglio 1943 e ne guiderà le scelte nei 45 giorni e in occasione dell’8 settembre, e poi nel trasferimento a Brindisi e infine a Napoli. Nella lucida riflessione che affiderà a un saggio uscito postumo nel 1944, il filo conduttore sarà che il fascismo non era stato una parentesi ma una grave malattia che aveva intaccato quasi dappertutto la fibra della Nazione, e che l’Italia sarebbe uscita da questa crisi solo se avesse saputo rompere con questo passato e solo se nuove minoranze rivoluzionarie avessero dato impulso a una “rigenerazione totale” e avessero riscattato “attraverso una rivoluzione vera un popolo portato alla rovina da una finta rivoluzione” (ed è d’obbligo qui il richiamo alla precedente “scoperta” di Giaime della figura di Carlo Pisacane). Era la prospettiva dell’incontro nella lotta di liberazione tra l’antifascismo del carcere e del confino, dell’illegalità e dell’emigrazione, a cui Giaime riconosceva ora la funzione storica di aver “tenuto viva per oltre vent’anni l’unica linea di pensiero indipendente in Italia” e di aver “preparato attraverso la lotta e il sacrificio i quadri di un avvenire migliore”, e la nuova generazione antifascista che si era formata direttamente nel paese e a cui egli sentiva ora a pieno titolo di appartenere.
Carlo Ferrucci con La mina tedesca si ripropone di ricostruire gli ultimi “avventurosi quaranta giorni” della vita di Giaime, una fase su cui disponiamo di una copiosa mole di testimonianze da parte di coloro con cui si relazionò e collaborò tra Brindisi e Napoli fino alla sua tragica fine a Castelnuovo del Volturno. Tuttavia, i documenti soggettivi di Giaime sono a tutt’oggi pochissimi. Quella fonte straordinaria che è costituita dal Doppio diario si chiude con il 2 settembre e le lettere da lui inviate, ivi compresa quella celebre al fratello Luigi, si contano sulla punta delle dita. L’Autore non è uno storico ma uno studioso di letteratura e non si propone qui di aggiungere qualche tassello e qualche altro episodio a quanto già noto. Cerca piuttosto di restituirci un ritratto psicologico e umano soggettivo di Giaime attraverso una forma romanzata che si avvicina tuttavia molto a un romanzo vero e lo fa con grande acume e sensibilità: cosicché La mina tedesca riesce ad arricchire e rende più intenso e partecipato il racconto di quel breve, intenso interludio che precedette la fine della vita di Giaime.
Possiamo così condividere il complesso intreccio di stati d’animo e di motivazioni che agitarono Giaime in quei pochi e insieme lunghissimi giorni che seguirono l’8 settembre: il senso del dovere ereditato dalle tradizioni di famiglia, ma anche la speranza in un soprassalto di dignità del Regio esercito, che lo spinsero a raggiungere da Roma gli uffici dello Stato maggiore a Brindisi; il rinnovato senso di frustrazione che lo colsero di fronte all’inerzia e al riprodursi dei modelli gerarchici e del chiuso conservatorismo di casta di un’intera classe dirigente sabaudo-fascista che aveva portato il paese alla catastrofe; e quindi l’impulso febbrile ad agire, a fare leva su forze nuove capaci di riscattare l’umiliante resa di Roma e di avviare una “rinascita nazionale” che segnasse una frattura tra L’Italia di ieri e l’Italia del domani.
Di qui l’esigenza inderogabile che il popolo italiano partecipasse autonomamente alla liberazione del paese e che nel corso di questo sforzo collettivo si formasse una classe dirigente radicalmente nuova che promuovesse il superamento delle vecchie forme di oppressione e delle storiche arretratezze che gravavano sull’Italia. Giustamente Carlo mette l’accento sul rinnovato spirito “risorgimentale” che animava Giaime e che si richiamava, nel suo fare leva sul valore politico e morale del volontariato, alla lezione recentemente riscoperta di Carlo Pisacane, ma a me pare di cogliere anche accenti tipicamente gobbettiani che provenivano dalle cerchia degli intellettuali della casa editrice Einaudi.
E infine il superamento di quella sofferta scissione tra poesia, cultura e azione politica che aveva caratterizzato l’itinerario di Giaime fino alla vigilia del 25 luglio. E del resto, già nell’introduzione all’edizione einaudiana del Saggio sulla rivoluzione non aveva scritto che nel distacco di Pisacane dai moderati si era consumata anche una rottura con quei dottrinari i quali “badano che la scienza non esca dalla sua innocenza”? Scrive giustamente Carlo che nei tormentati giorni di Brindisi si faceva strada in Giaime la sensazione che una parte importante del suo passato gli fornisse un insperato appoggio”, che la poesia agisse “su di lui con una spinta, un incitamento, anziché come un freno” all’azione. Come avrebbe scritto nella sua ultima lettera a Luigi: “Musicisti e scrittori dobbiamo rinunciare ai nostri privilegi per contribuire alla liberazione di tutti. Contrariamente a quanto afferma una frase celebre, le rivoluzioni riescono quando le preparano i poeti e i pittori, purché i poeti e i pittori sappiano quale deve essere la loro parte”.
Questo scritto riprende l’intervento svolto alla presentazione del libro di Carlo Ferrucci, La Mina tedesca. Il vero romanzo di Giaime Pintor, Tra le righe libri, s.l., 2015, organizzata dal Circolo Culturale Monte Sacro (Roma, 15 dicembre 2017).