La storia del movimento delle donne in Palestina (Terza parte: Dal 1990 ad oggi)

16 Marzo 2018
[Valentina Brau]

La terza e ultima parte della rubrica di Valentina Brau sulla storia del movimento delle donne palestinesi. (Red).

In tutto il mondo coloniale, il controllo della mobilità come della sessualità delle donne fu essenziale al momento di radicare i controlli di potere tra colonizzatori e colonizzati. Spesso le politiche degli Stati coloniali si preoccupano di costruire il nuovo soggetto ‘donna’, riappropriandosi e modificando i significati della cultura tradizionale. In Palestina, gli importanti Comitati delle Donne sviluppatisi negli anni ’80 persero la loro influenza nel periodo dell’Intifada e con l’inizio delle conversazioni di pace, a causa dello stato di vessazione della popolazione palestinese e dell’intromissione sionista coloniale. Nel 1993 nacque l’Autorità Palestinese, che non poteva formare un esercito, controllare le frontiere, o esercitare autorità su Gerusalemme Est, o avere potere sull’economia e la politica estera. Si promise di discutere sulle questioni come i rifugiati, lo statuto finale dei territori, che avrebbe portato alla creazione di uno Stato indipendente nel 22 % della Palestina storica. Questo avrebbe significato nella pratica un’accettazione ufficiale palestinese dell’occupazione israeliana, e inoltre, che Israele avrebbe continuato ad avere diretta o indirettamente il controllo economico, sociopolitico e militare di tutto il territorio.

In questo contesto e dopo la partecipazione costante nella lotta politica, le donne palestinesi si aspettavano di essere incluse negli organi e nelle strutture dell’Autorità Palestinese. Ciò non avvenne. All’interno della loro cultura si manifestò più potente quella parte della tradizionale cultura patriarcale presente nella società, diventata dominante. Tutte le posizioni erano assegnate dal leader, sempre e solo di sesso maschile.

Il movimento nazionalista più vicino ai nostri giorni ha dunque tolto grande potere politico nella costruzione della nazione alla donna. Questo è ciò che avvenne in molte comunità degli stati africani, per esempio. I meccanismi del colonialismo e del neo-colonialismo sono sempre gli stessi: sradicare e distruggere la cultura, la lingua, la tradizione e il sapere dei paesi occupati. Come abbiamo visto infatti, la donna aveva molto più potere nella società palestinese di quello che un occidentale medio possa pensare. Il colonialismo, insieme a distruzione e povertà, fomenta la radicalizzazione delle idee più conservatrici e chiuse, aspetto che gli permette di portare a termine più velocemente la disgregazione della società precedente. Le donne palestinesi dunque si ritrovarono sole, tra il maschilismo e la violenza del colonialismo occidentale, e la cultura della loro società d’origine, rivelatasi radicalmente patriarcale.

Nelle parole di Huma Ahmed-Gosh l’uso politico che l’Occidente fa del corpo della donna è stato un punto centrale nella definizione delle regioni mediorientali come retrograde. La guerra, nella propaganda occidentale, sarebbe frutto della necessità di liberare queste società, e in esse il genere femminile, nuovamente usato come strumento di scalata al potere. Dall’altra parte, la difesa da parte palestinese del genere femminile davanti all’occidentale, negli ultimi decenni diventa simbolo perfetto del mantenimento dell’autenticità islamica e del suo onore. Il problema maggiore che infatti ritroviamo dopo il 1990 è che mentre i gruppi femministi del XX secolo erano liberi di essere per la maggior parte secolari, ad oggi questo può risultare per alcuni un appoggio all’imperialismo, un tradimento alla vera sostanza islamica.

Come sappiamo, esistevano già fattori di disuguaglianza di genere anteriori al colonialismo inglese e sionista: le relazioni di genere delle strutture dei clan, per esempio, o l’importanza dei mandati religiosi nella vita sociale. Mentre prima la Palestina rappresentava un perfetto esempio di convivenza di diverse religioni, pian piano le fazioni fondamentaliste islamiche acquistarono sempre più protagonismo. Nonostante l’Autorità Palestinese a parole si dimostrasse favorevole ai diritti delle donne, nella pratica non si impegnò ad effettuare nessuna modifica nella legge dello statuto personale e familiare concernenti il genere femminile. Solo il 19% del personale dell’AP erano donne, il cui 52% lavorava nei servizi di pulizia e segreteria. L’obiettivo del Movimento delle Donne era sempre stato quello di non criticare le casalinghe o le donne che lavoravano per esempio nel settore della pulizia, ma di far capire loro che se avessero voluto fare un altro tipo di lavoro avrebbero dovuto lottare per poterlo fare. E spesso, la mancanza di desideri ed ambizioni lavorative nel genere femminile, viene dall’obbedienza all’autorità familiare, e dall’ascendente di una cultura che perpetua continuamente stereotipi su come la donna dovrebbe essere e su ciò che è giusto che lei faccia.

La femminista iraniana Valentine Moghadam ci ricorda che i diritti della donna si promuovono e proteggono meglio in un contesto secolare. Contesto che come abbiamo visto stava cercando di svilupparsi in buona parte del XX secolo palestinese. I maggiori studiosi dei meccanismi del colonialismo dimostrano come i meccanismi di potere, imponendo condizioni di vita disumane ai popoli oppressi, riescano a farli retrocedere a condizioni che la popolazione aveva già superato attraverso il dialogo tra i cittadini in condizione di pace. La crescita di un nazionalismo frustrato dalloccupazione colonialista sionista ha generato una divisione nel popolo palestinese e uninvisibilizzazione delle minoranze etniche con cui prima esisteva una convivenza pacifica.

Il Movimento delle Donne era convinto che Fatah, il partito nazionalista leader dell’Autorità Palestinese e del Comitato di Liberazione, avrebbe dovuto optare per una lotta all’uguaglianza di genere.

La Legge Basica emendata nel 2003-05 riconosceva il principio di uguaglianza senza discriminazione dei sessi; tuttavia, anni più tardi, la Legge Basica prese un’altra piega: si allontanò dal principio di secolarismo iniziale, stabilendo che i principi della shar‛iah avrebbero costituito la fonte principale della legislazione. Per molte donne la shar‛iah avvalla la discriminazione del genere femminile, nei temi concernenti il matrimonio, il divorzio e la custodia dei figli, i crimini d’onore, la legalità della violenza sessuale dentro il matrimonio e la possibilità per l’uomo di sfuggire le pene organizzando il matrimonio con la vittima. Anche in ambito processuale spesso la testimonianza della donna è considerata come “mezzo testimone” rispetto all’uomo.

Mahmud Abbas, presidente dell’AP dal 2005, ha promesso svariate volte di cambiare una serie di leggi. Tuttavia la situazione rimane in una specie di limbo legale, e varia da zona a zona e spesso da famiglia a famiglia, nonostante tutti i settori e le organizzazioni delle donne, così come le unioni dei lavoratori, esigano che si realizzi una copia definitiva del codice civile, e che le leggi castighino una lunga serie di crimini. È dimostrato infatti che nel 90% dei casi di assassinio, l’onore familiare non è il vero movente del crimine. Ci sono moltissimi casi di donne assassinate per problemi nell’eredità familiare, per essere un peso economico, per casi di violenza domestica grave o per occultare altri delitti come uno stupro o l’incesto.

Alla campagna del hiyab del 1990 a cui abbiamo fatto riferimento, le donne risposero denunciando l’imposizione di condizioni repressive da parte di uomini fondamentalisti e dei partiti nazionali conservatori.

Nel 1994 fu approvata la Palestinian Women’s Charter, che chiedeva luguaglianza di genere e l’eliminazione di qualsiasi forma di discriminazione in tutti i campi dell’organizzazione statale. Nonostante nello stesso anno durante la presentazione del documento venne letta una dichiarazione di Yasser Arafat che appoggiava gli sforzi realizzati, non si arrivò all’approvazione di un sistema di quote per il quale il 30% delle persone elette nei partiti dovevano essere donne. Il problema rimane quella parte conservatrice della società, in maggioranza maschile, che appoggia esclusivamente le leggi tradizionali islamiche, e accusa qualsiasi volontà di cambiamento come parte di una cospirazione colonizzatrice occidentale per debilitare il presunto tessuto morale musulmano. Tutti i tentativi delle donne in quest’ottica si trasformano in “assalti ai valori della famiglia”.

Quello che gli ultimi studi oggi vogliono dimostrare, andando a ripercorrere le tappe fondamentali del movimento delle donne, è l’enorme peggioramento delle condizioni sociali e culturali in seguito alle violenze, all’occupazione coloniale e alle operazioni militari israeliane che continuano a non rispettare i diritti umani. Secondo Gijón Mendigutía Israele approfittò della congiunzione tra Intifada e attentato alle Torri gemelle del 2001, per portare a termine senza pietà le sue politiche espansionistiche e la separazione geografica delle comunità palestinesi, per di più intensificando le politiche che violano i diritti umani e le leggi internazionali.

Oggi le donne si trovano a lottare con una mole di problemi che prima non conoscevano. L’enorme percentuale di disoccupazione, per esempio, che in stato di vedovanza porta al disfacimento totale di qualsiasi speranza di vita dignitosa. Si vedono gravemente colpite dalla demolizione delle case come pure dalle norme di genere vigenti nella regione, dal muro dell’Apartheid.

Oggi le molestie e le intimidazioni si realizzano infatti nei chiamati check-points, con derisioni gravi e umiliazioni continue nei riguardi delle donne e della loro appartenenza a una differente religione e popolazione. Contro, insomma, la loro diversità. Il razzismo degli israeliani si manifesta per esempio quando una donna necessita di attraversare il muro, per motivi educativi o di salute, ed è costretta a subire gli abusi maschili. Spesso le donne preferiscono rinunciare alle cure mediche per non doversi sottoporre ai controlli dei checkpoints. Magaly Thill spiega che Israele pratica anche l’isqat siyassy, l’abuso e la minaccia sessuale delle donne, con il proposito di reclutare informatrici e collaboratrici. Gli studiosi hanno individuato anche, attraverso le interviste e lo studio dei documenti delle ONG, l’usanza da parte di membri ufficiali israeliani di incitamento all’assassinato massivo delle donne, così come l’invito alla violenza sessuale con lo scopo di indebolire le forze palestinesi in generale. Nella logica sionista, come abbiamo visto, la conquista della terra e la distruzione del popolo palestinese e del suo progetto nazionalista, raggiungerebbe il suo perfetto apice simbolico nell’umiliazione e distruzione del genere femminile.

Oggi le note positive sono alcune leggi emanate in favore delle donne, come lo stabilimento dell’età minima per il matrimonio ai 18 anni di età (2004), o la scissione della legge che impediva alle donne maggiori di età di viaggiare o ottenere un passaporto senza il permesso dell’autorità maschile (1996). L’analfabetismo tra le donne è diminuito, anche se rimane tre volte più alto rispetto a quello degli uomini, soprattutto nelle zone rurali.

Eileen Kuttab pone enfasi sul problema della trasformazione del Movimento e dei Comitati delle Donne in ONG negli anni 2000. Le ONG sono spesso vittime di intromissione straniera, e la loro struttura impedisce un’amplia partecipazione delle donne palestinesi, togliendo così legittimazione alle organizzazioni femministe locali. In definitiva risultano molto meno efficaci degli antichi Comitati delle Donne.

Lontano quindi dallo stereotipo della donna mediorientale come figura che necessita di essere liberata dalle chiamate democrazie occidentali, che così facendo legittimano interventi imperialisti e il nuovo colonialismo, arriviamo alla conclusione che gli interventi stranieri nel caso palestinese non hanno apportato nessun miglioramento rilevante, e vediamo invece una sostanziale differenza della condizione femminile dagli ’70 ai giorni nostri.

Oggi, la Coalition of Women for Peace, organizzazione femminista israeliana, diffonde una politica di solidarietà. La coalizione lotta dichiaratamente contro l’occupazione coloniale della Palestina e aderisce alla campagna Boycott Israeli Products Campaign. Numerose femministe, attiviste antimilitariste di tutto il mondo faranno lo stesso. Le idee di dignità, pace e uguaglianza come sempre fioriscono nello spazio del dialogo verso il rispetto della differenza.

Della stessa autrice La storia del movimento delle donne in Palestina (Prima parte: 1884-1949), La storia del movimento delle donne in Palestina (Seconda parte: 1950-1989).

Nel mio paese, non pronunciai
il mio nome correttamente
e allora fui torturato;
nella linea del nemico, non pronunciai
il mio nome correttamente
e allora fui esiliato;
al mio arrivo qui, non pronunciai
il mio nome correttamente
e mi diedero nuovi documenti…

Nathalie Handal

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