Dalla Grande guerra al Fascismo
16 Maggio 2018[Claudio Natoli]
I due libri di cui qui si discute, Quinto Antonelli, Cento anni di Grande Guerra. Cerimonie, monumenti, memorie e contromemorie, (Donzelli, Roma, 2018) e Paul Corner, La dittatura fascista. Consenso e controllo durante il Ventennio (Carocci, Roma, 2018), pur nella loro autonomia, si inseriscono entrambi pienamente all’interno delle problematiche che riguardano il rapporto tra Grande Guerra e Fascismo. E dirò subito che siamo in presenza di due lavori di grande interesse.
1. Il libro di Antonelli affronta il tema della costruzione della memoria collettiva della Grande guerra dal punto di vista di quelli che sono stati i suoi principali promotori, e cioè non tanto gli storici, bensì i soggetti politici e istituzionali, le associazioni combattentistiche, i giornalisti, gli architetti, i parroci, i maestri di scuola, i libri di testo, gli scrittori per l’infanzia, ma anche i luoghi, i monumenti commemorativi, e naturalmente i riti, i simboli e le commemorazioni ufficiali.
E’ difficile sintetizzare i tanti elementi di riflessione e le nuove conoscenze che questo libro contiene, per la capacità dell’autore di stabilire un costante intreccio tra i molteplici ambiti esaminati e di ricondurli a un contesto unitario. Il primo aspetto che emerge, è che si tratta di una memoria costruita dall’alto, all’insegna di una “celebrazione sacrale”, a cui hanno però contribuito in una sostanziale convergenza, soggetti diversi e che, con sorprendenti elementi di continuità, è stata diffusa capillarmente dapprima dalla propaganda, dalla comunicazione di massa e dall’azione pedagogica già nel corso della Grande Guerra, in seguito nelle iniziative commemorative della guerra e della vittoria al tramonto dell’Italia liberale, e infine in una continua e pervasiva “eroicizzazione” e “monumentalizzazione” nell’Italia fascista. Ciò che qui più colpisce è la significativa contiguità e continuità di motivi già presenti nelle motivazioni dell’intervento e poi nella gestione della guerra da parte delle èlites liberal-conservatrici e nazionaliste, con il concorso non irrilevante di esponenti dell’interventismo democratico, con la successiva “sacralizzazione” della guerra da parte del regime fascista: e cioè la guerra come evento rigeneratore della Nazione, con il superamento delle divisioni tra le classi nell’ambito di una comunità pacificata e gerarchicamente strutturata, l’esercito come entità coesa, votata alla religione della patria e fondata sullo spirito di sacrificio e sul dovere di obbedienza dei ceti popolari, la conquista dei “sacri confini” e la santificazione dei martiri dell’idea, i miti del fante contadino e dell’alpino montanaro, la trasfigurazione e l’occultamento della morte seriale di massa attraverso l’esaltazione del sacrificio individuale e dell’eroismo. Del tutto giustamente Antonelli sottolinea il ruolo di tutto rilievo svolto da autorevoli esponenti del mondo cattolico italiano, che in stridente contrasto con i messaggi di pace di Benedetto XV, non solo predicarono il dovere dell’obbedienza alle autorità civili e militari come virtù cristiana, ma celebrarono anche il sorgere dai campi di battaglia di “un’Italia politicamente forte, socialmente compatta, moralmente pura, religiosamente serena” (p. 138), rivendicarono i “sacri confini” e celebrarono la guerra come “giusta e benedetta da Dio” (p. 139). Si potrebbe aggiungere che se la guerra non produsse l’auspicata “nazionalizzazione” delle classi popolari, tuttavia fu un potente fattore di “nazionalizzazione” del cattolicesimo italiano, i cui esiti, tramontata la stagione democratica del Partito popolare, sarebbero confluiti, all’insegna della triade Dio-Patria-Famiglia, nel clerico-fascismo.
Per parte sua il regime fascista, come Antonelli puntualmente dimostra, riprenderà e rielaborerà il complesso di questi motivi, presentandosi come l’erede dell’esperienza della guerra, come il protagonista dell’annientamento dei “nemici interni” della Nazione e della sua rigenerazione come grande potenza imperiale sulla scena internazionale e facendone parte integrante della propria religione politica. Riemergevano qui alcuni tratti tipici del nazionalismo italiano (ivi comprese le suggestioni populistiche) ma essi venivano declinati traendo tutti gli insegnamenti della mobilitazione delle masse avviata dalla Grande Guerra. Alla “mitizzazione” della guerra corrispose la sua esaltazione come valore in sé, in un intreccio tra vitalismo e celebrazione della “bella morte”, e la sua monumentalizzazione (dal Monumento alla Vittoria di Bolzano al sacrario di Redipuglia). A ciò corrispose l’avvio di programmi sempre più invasivi di pedagogia collettiva rivolti alle nuove generazioni (parchi della rimembranza, culto dei caduti nelle singole scuole, pellegrinaggi sui siti di guerra, libri di testo e libri per bambini, raccolte di canzoni opportunamente censurate e sterilizzate di ogni contenuto problematico o dissacrante. L’altra faccia di questa realtà era un modello di società gerarchizzata, irreggimentata, militarizzata, anche se governata attraverso rituali plebiscitari, ma su questo punto tornerò tra poco riprendendo alcuni temi del libro di Paul Corner.
Ciò che più sorprende dalla lettura del libro di Antonelli è quanto forti siano stati nella sfera pubblica gli elementi di continuità nel mito della Grande Guerra non solo tra la tarda età liberale e il fascismo, ma anche dopo la caduta del regime, e questo per opera di molte e anche inopinate parti. Come l’autore giustamente sottolinea, nelle celebrazioni ufficiali del 4 novembre, ribattezzato nell’Italia repubblicana giorno dell’unità nazionale e delle forze armate, venne bensì a cadere la retorica nazionalista e bellicista dell’epoca fascista, ma si accreditò una memoria della Grande Guerra gravemente mutilata. Ed infatti essa venne presentata come Quarta guerra d’indipendenza, in un rapporto diretto con le tradizioni risorgimentali e in quadro storico decontestualizzato e carico di omissioni. Esse riguardavano le pretese espansionistiche della politica estera italiana, il carattere minoritario e imposto dell’intervento, la spaccatura del paese e l’estraneità e l’opposizione della classi popolari, i caratteri e le finalità delle strategie militari, della gestione dell’esercito e del fronte interno, i molteplici nessi che legavano l’esperienza della guerra alla crisi finale dello Stato liberale e all’avvento al potere del fascismo. E’ significativo anche che le prime opere d’insieme uscite nel dopoguerra che affrontavano il tema del fascismo (da Chabod a Salvatorelli-Mira) prendessero le mosse solo dalla crisi del primo dopoguerra. Il secondo elemento di grande interesse è che tutto lascia credere che anche nel campo delle forze della sinistra ci si sia mossi su questi temi con estrema prudenza. La stessa visione della Resistenza come “secondo Risorgimento”, come lotta di liberazione nazionale dell’intero popolo italiano contro il “nemico di sempre”, talvolta in continuità con la stessa Grande guerra, che venne sostenuta non solo da esponenti del Partito d’Azione, ma anche dal Partito comunista di quegli anni, non poteva che influire in questo senso. Per cui fa molto riflettere come la contro-memoria della Grande guerra che era stata a suo tempo sviluppata dal PSI e che era stata soffocata dal fascismo non trovasse canali significativi di espressione nel primo quindicennio dell’Italia repubblicana (un’altra cartina di tornasole è costituita dai libri di testo per le scuole). E anche come essa riemergesse attraverso i canali non istituzionalizzati della “storia dal basso” e della storia delle culture popolari soltanto nel clima profondamente mutato degli anni ’60 e solo allora cominciasse a investire una parte della storiografia accademica, ivi compresa quella di ispirazione marxista, per poi conoscere uno straordinario sviluppo negli ultimi decenni.
In sede di conclusione Antonelli si interroga in quale misura gli elementi nuovi di conoscenza acquisiti (si pensi al ricchissimo filone delle scritture popolari) abbiano influito nel formare una nuova e più consapevole “memoria collettiva” della Grande guerra, o se non stiamo all’opposto assistendo negli ultimi anni a una rinnovata scissione tra politica e cultura, tra ricerca scientifica e comunicazione di massa. E se proprio negli anni della cosiddetta Seconda Repubblica e segnatamente nelle iniziative comunicative, editoriali e audiovisive in occasione del centenario non sia affiorata una tendenza a marginalizzare la nuova storiografia critica e a diffondere un senso comune “post-ideologico”, oscillante tra l’eroico e il banale, incentrato sulla dimensione esistenziale dei combattenti, separato da una approfondita contestualizzazione storica. Ma questo argomento ci porterebbe molto lontano, mentre è opportuno a questo punto soffermarsi sul secondo volume su cui ci proponiamo di riflettere.
2. Il libro di Paul Corner costituisce un ricco approfondimento di tematiche relative al regime fascista da lui assiduamente frequentate nell’ultimo ventennio. Al centro della sua attenzione si sono collocati non tanto gli apparati per la costruzione del consenso plebiscitario o gli elementi di “autorapprsentazione” cari ai sostenitori della “storia culturale”, quanto piuttosto gli strumenti di coercizione e di condizionamento dello Stato fascista, e soprattutto l’impatto che le pretese totalitarie del regime hanno esercitato sulla vita quotidiana, sulla mentalità e sui comportamenti della popolazione. Da questo punto di vista Corner è uno dei non molti studiosi che in Italia si sono confrontati con le più affinate metodologie di ricerca che, in riferimento alla Germania nazista, ma per certi aspetti anche all’Unione Sovietica, si sono emancipate dalla cappa soffocante della teoria del totalitarismo così come è stata declinata negli anni ’50 da storici e politologi di fede occidentale (anche a dispetto degli orientamenti della Arendt) e che malauguratamente è tornata in parte in auge dopo la caduta del Muro di Berlino. Il punto centrale di differenziazione è stato il superamento del luogo comune di una società totalmente passiva e soffocata dalla cappa opprimente del regime, oppure, secondo la visione defeliciana, permeata da un consenso generalizzato, priva di tensioni e di conflitti: e questo sulla base di un approccio metodologico fondato non più sul dominio, bensì sull’interazione tra Stato e società e quindi capace di individuarne i tratti di soggetti autonomi e le reciproche interrelazioni e di analizzare la vasta gamma di comportamenti differenziati che nel vivo della società caratterizzarono la vita quotidiana nel regime fascista e che sfuggono alla contrapposizione dicotomica tra consenso e opposizione politica finalizzata al rovesciamento del regime. In questa luce un peso determinante sulla stabilità del regime acquistano da una parte la repressione selettiva e i molteplici condizionamenti per l’acquisizione delle provvidenze assistenziali e delle gratificazioni individuali, dall’altra l’ineluttabilità, in assenza di una prevedibile crisi politica dissolutrice, di meccanismi generalizzati di adattamento. Ma proprio questi ultimi possono implicare conformismo e sottomissione, ma possono anche coesistere con comportamenti di resistenza individuale e di gruppo, di opposizione parziale o di non conformità nella sfera grigia ai limiti della legalità fascista.
Giustamente Corner sottolinea come questi fenomeni, peraltro, mi permetto di aggiungere, tutt’altro che infrequenti anche nella Germania nazista, abbiano tratto origine per l’intera storia del regime da una contraddizione strutturale che esso non fu mai in grado di risolvere: e cioè l’enorme divario tra eclatanti promesse ed effettive realizzazioni, che ne determinò la delegittimazione e il fallimento presso larghi strati della popolazione già alla fine degli anni ’30. E qui entra in primo piano il tema del rapporto tra Grande guerra e affermazione del regime fascista.
Il fascismo si era proposto alle élites tradizionali del potere (agrari, industriali, monarchia, vertici burocratici e militari) come la soluzione dei problemi strutturali del capitalismo italiano, emersi già prima del 1914. E cioè l’incapacità di allargare le basi di massa dello Stato liberale alle classi lavoratrici (mi permetterei di aggiungere non solo alle masse rurali ma anche alla classe operaia del Settentrione) e di riassorbire per questa via la conflittualità politica e sociale. La Grande guerra aveva costituito da questo punto di vista un primo laboratorio per una svolta autoritaria attraverso sia una politica estera espansionistica, sia un rapporto privilegiato tra lo Stato e le centrali del potere economico, sia infine la ferrea irreggimentazione delle classi lavoratrici gestita al fronte dalle gerarchie militari e nelle vita civile dalla mobilitazione industriale e dalla militarizzazione degli operai dell’industria. Il grande ciclo di lotte politiche e sociali del “biennio rosso” e l’irrompere della democrazia di massa per un verso arrestò questo processo, per l’altro lo radicalizzò. La restaurazione e il rafforzamento delle vecchie élites del potere passò allora attraverso un nuovo soggetto politico che coniugò reazione di classe e mobilitazione di massa, approdando a nuovo tipo di Stato autoritario e tendenzialmente totalitario e alla distruzione del movimento operaio come soggetto collettivo. E tuttavia, come nota giustamente Corner, in Italia la politica del fascismo “fu determinata in gran parte dai lasciti delle prima guerra mondiale”. Le scelte del regime, se in parte si modificarono negli anni ’20 e ’30, rimasero “sempre orientate al conseguimento dello status di grande potenza e persistettero nel comprimere la salari e consumi per la maggioranza della popolazione, che conobbe un regresso non solo sul piano delle condizioni materiali, ma anche di quello dei diritti individuali e di libertà. Era inevitabile, questa la conclusione, “ che la gente infine reagisse a tale politica, perdendo ogni fiducia potesse aver nutrito in precedenza sulle capacità del regime di rispondere alle sue difficili condizioni di vita”( p. 146). D’altra parte, per imboccare una via d’uscita, il fascismo avrebbe dovuto “abbandonare il suo unico clamoroso successo ( la messa in riga delle classi lavoratrici e la riduzione del costo del lavoro)”, rinunciare “alla sua base di sostegno politico essenziale (i grandi industriali, i grandi proprietari terrieri e, in una certa misura, i cedi medi privilegiati”), e infine cancellare “le sue pretese espansionistiche”. E’ chiaro che il regime non poteva agire in questo senso “senza cessare di essere fascismo” (p. 174).
In questo scenario la guerra si configura come un tratto genetico, non già come una deviazione, un incidente di percorso: “Il fascismo –scrive Corner- fu figlio di una guerra, morì in conseguenza di un’altra guerra e –fattore determinante per tutta la sua esistenza predicò i valori, la necessità e la inevitabilità della guerra” (p. 97). Ma, come già nel 1914, è impossibile in questo contesto storicamente determinato separare la politica estera dalla politica interna. Se sul piano internazionale il principio guida era quello socialdarwiniano della supremazia del più forte (con tutti i risvolti anche razzistici che questo implicava) sul piano interno tutto ciò comportava la militarizzazione della società, con la creazione di una fittizia unità monolitica della nazione attraverso la soppressione dei conflitti sociali e delle lotte tra i partiti, con l’imposizione della gerarchia, della disciplina, della repressione di tutti i veri o presunti “nemici” dello Stato. Pienamente da condividere è infine la considerazione finale secondo cui, se alla fine degli anni ’80 il fenomeno dei fascismi poteva essere considerato come tramontato, alla luce degli eventi più recenti “è difficile evitare la scomoda sensazione che la distanza, lungi dall’aumentare, stia in realtà accorciandosi”:
“E’ un luogo comune –scrive Corner nel capitolo introduttivo- che la storia non si ripeta, e, nel caso del fascismo, che tale cliché sia valido. Ma, anche se così fosse, coloro che oggi sono preoccupati per la tenuta della democrazia possono difficilmente evitare qualche presentimento nel guardare al passato. I totalitarismi del XX secolo, molto differenti fra di loro, sono sorti da situazioni che richiamano sotto alcuni aspetti le crisi attuali. L’estrema destra, in particolare, guadagna terreno in molti paesi e un passato da neonazista non garantisce più l’esclusione automatica dall’arena politica. L’implicito e automatico istinto democratico, patrimonio della cultura occidentale post-1945, non sembra funzionare più. Allora un’analisi del fascismo del XX secolo assume una nuova urgenza, e fare i conti col passato diventa di stretta attualità” (pp. 14-15). Per parte mia ritengo opportuno concludere con alcune notazioni di Ian Kershaw, un autore, credo, caro anche a Paul, che risalgono alla fine degli anni ’80 e che risultano per questo davvero precorritrici:
“La limitata sensibilità democratica ed emancipatoria nell’attuale società occidentale si manifesta spesso nel fatto che è molto diffuso un insufficiente interesse politico oppure che la politica è del tutto ignorata, che dal punto di vista sociale e politico la misura della tolleranza è strettamente legata al benessere materiale, che vengono alla luce reazioni e comportamenti tipicamente autoritari […], che si manifestano intolleranza razzista e discriminazione verso minoranze etniche, immigrati e lavoratori stranieri- le attuali manifestazioni della ‘patologia’ della moderna società industriale […] . Per quanto modesto possa essere il contributo dello studiosi per combattere il discredito dei valori democratici e umanitari che rende possibile simili oscenità, lo storico che si occupa del nazionalsocialismo ha non solo il compito ma il dovere di cercare con l’insegnamento e le pubblicazioni (e con il loro effetto moltiplicatorio) di descrivere e di far comprendere nel modo il più possibile chiaro, convincente, equilibrato e non dogmatico la realtà dei valori fascisti, della politica fascista e del dominio fascista. Questo compito non è tanto importante perché nel prossimo futuro ci sarebbe da temere un nuovo trionfo del fascismo, quanto piuttosto perché è sperabile che per questa via si rafforzi la consapevolezza che i valori democratici e umanitari non sono connaturati né inevitabilmente né necessariamente né una volta per tutte alla moderna società industriale, e che invece noi dobbiamo continuamente e sempre di nuovo lottare in nome di questi valori e dobbiamo difenderli contro tutti gli attacchi che in parte si manifestano in una forma completamente nuova, da parte di un ‘moderno’ autoritarismo” ( I. Karshaw, Der NS-Staat. Geschichtsinterpretationen und Kontroversen in Űberblick, Rowohlt Verlag, Reinbek bei Hamburg, 1989, pp. 342-44).
Questo testo riproduce il contenuto di una relazione svolta all’incontro Dalla Grande Guerra al Fascismo, dedicato alla presentazione dei due libri citati e organizzato dal Dipartimento di Storia, Beni culturali e Territorio e dal Dipartimento di Filologia, Letteratura e Linguistica dell’Università di Cagliari (Cagliari, 17 aprile 2018).