Frammenti d’amicizia. Ricordando Marc Porcu

16 Giugno 2018
[Giovanni Dettori]

A un anno dalla morte di Marc Porcu pubblichiamo un ricordo di Giovanni Dettori.

Sindacalista di solitudini
ceffo che divora il nulla
sedentario delle longitudini
carne da sbirro
tumore della funzione urbana
don Chisciotte del crepacuore

I documenti, poeta!
poeta, documenti!
Leo Ferrè

Pazienza io me ne vado
vi lascio
bruciare calorie è un bell’ ideale
un’ideologia per neo-liberali.

Ricordatevi di noi
quando le nostre città periranno.

Marc Porcu

Cominciò per caso: per quanto le cose soltanto in apparenza accadano in modo del tutto casuale. E cominciò a Lodève, altro luogo altro tempo, al festival di poesia “Voix de la Méditerranée” del luglio 2000. In qualche modo, furono Michel  Bret e Annie Salager, due poeti di Lione conosciuti in quest’occasione, a innescare il contatto. Si dicono amici di un certo Marc Porcu, poeta lionese di origine sarda, presidente della rivista “Poésie-rencontres”.

Dopo qualche mese, Marc mi scrive mandandomi  la traduzione del figlio di Bakunìn di Sergio Atzeni appena ristampato e chiedendo di incontrarmi a Lione o a Torino. E fu Torino. Arrivò da solo. La moglie Annick, diffidente e prudente rimase a Lione: si sa mai chi Marc, temerario come sempre, sarebbe andato a incontrare.

Dalla fine di quel primo incontro, non ci saremmo più persi di vista. Tra le tante cose che accadono, sempre per ”per caso”, questa volta era anche accaduto di incrociare un’esplosiva miscela di sardo- franco-tunisino: occhio e pelo corvini, crine lungo su spalla larga, baffo e pizzo da guascone. Lo si poteva anche sospettare, dato il bagaglio somatico, un personaggio in fuga da una pagina di letteratura ottocentesca.

E inaspettato, parlando a lungo e fitto – come sempre accade a un primo incontro, quando si vuole raccontare di sé tutto in una volta -, venivo a trovare nel suo bagaglio storico e genetico che sí, è proprio in fuga. Ma dal mio stesso lembo di terra, dalla mia stessa “zattera di pietra”. Che sí, volendo prestare fede ai freddi dati anagrafici, è un franco-tunisino. Ma “di origine sarda”. Come ero esattamente anche io: “di origine sarda”.

Come i sardi che mai varcarono la fossa del Tirreno  un tempo amavano connotare chi per una o altra ragione si mettesse in viaggio, abbandonando l’Isola. I fuorusciti. Gli esiliati. “Eremitanos”!…  Senza bandiere né patrie. Senza padroni né dei.. Stranieri eppure sempre a casa propria, a proprio agio dovunque nel mondo grande e terribile.

Chi abbia conosciuto lo sradicamento, chi conosce l’esilio è provato da un’esperienza singolare: quella dell’essere umano esiliato all’Infinito, esiliato dal cosmo. Vivere, allora, è accettare l’esilio come la più alta delle patrie, come Marc cantava in “Mémoires de l’exil”. Come in “Exil” già aveva cantato Saint-John Perse, poeta di ogni lontananza:

L’esilio non è di ieri! l’esilio non è di ieri”!
Su troppi lidi visitati, furono i miei passi lavati
prima del giorno; su troppi giacigli disertati
fu la mia anima
abbandonata al cancro del silenzio.
Straniero su tutti i lidi del mondo,
senza udienza né testimone,
conchiglia senza memoria, ospite
precario ai margini delle città…

Era la nostra condizione di nomadi, di migranti. Ci leggevamo in essa. Questo il sigillo, la marcatura che entrambi ci connotava, che ci portavamo dentro. Quasi destinati a vivere entrambi come esiliati nello spazio-tempo di un’attualità innominabile, di una società atomizzata, separata e arrabbiata, la nostra amicizia si andò fondando e andò crescendo sull’empatia, sulla con-passione. Sulla capacità di vederci e riconoscerci nello sguardo dell’altro, di leggerci attraverso la poesia dell’altro.

Per Marc la poesia è sempre stata azione clandestina, sabotaggio, sfida perdente all’ordine delle cose di un “Don Quichotte du crève-coeur”. Traccia costante della sua anima libertaria, del suo coinvolgimento umano, della sua con-passione verso chi è senza difese, senza voce. Vincolo che non verrà mai meno nella sua poetica, nel suo essere uomo. Esordiva dalle proprie radici: “Île une origine”.

Correva fuori dal branco, Marc, ruvido e schietto, ancora capace di stupirsi, indignarsi, ridere. Dolce e amaro. Tenero e duro. Perché era un uomo vero, reale, in un ambiente in cui crescono a vista d’occhio individui soltanto virtuali. Perché era un uomo antico che tentava di anticipare il futuro. Un uomo per cui contava l’essere e non l’apparire. . Credeva nelle parole che gli uscivano di bocca e faceva quello che le parole dicevano.

Privilegio dei poeti è proprio questo continuare, come questa sera, a parlare anche dopo la loro scomparsa fisica. Se sono autentici, come Marc era, il seme che hanno gettato, le parole che hanno detto,  non vanno perduti.

*  *  *

In sintonia e tuttavia diversi, talvolta discordi poiché mai né lui né io siamo caduti nell’errore di confondere l’amicizia col combaciare di due triangoli equilateri. Ma proprio questo non- combaciare, questo scarto, questo divergere che, in quanto tale, invece ci affratellava, ci fece svelare l’uno all’altro negli anni. Così simili eppure così diversi: complementari. Obelix e Asterix, sorridendo di noi stessi, ci era sembrato sensato definirci.

Gli amici che “per caso” s’incontrarono e si abbracciarono. Che poi  si sono lasciati e sono partiti: ciascuno  per incontrare la propria sorte. Così, ora, non mi preoccupa la sua morte. So che non tornerà, né che mai se ne andrà poiché, in verità, mai se ne è andato. Mai ci ha lasciato.

 

Pluralità di anime, identità molteplici: Marc era un tunisino, un francese, un sardo?…

E’ stato questo essere plurale, questa alchimia di identità, questo “apertura” all’identico e diverso che dava sostanza, impastava e cuoceva al forno la sua poesia. Oltrepassando le strettoie, i vicoli senza uscita e i serrami, l’asfissia dei confini e delle patrie: grandi o piccole che fossero.

Questo “meticcio”, strano impasto e composto alchemico [garbuglio] di Sardegna-Tunisia-Francia, rispondente al nome di Marc Porcu, aveva tradotto  poeti e scrittori sardi, a partire dai romanzi e dalle poesie di Sergio Atzeni, di cui è stato  l’inventore pressoché solitario per le edizioni lionesi “la Fosse aux Ours” di  Pierre-Jean Balzan. Traduzioni che la stampa francese definiva addirittura “eroiche”.

Da cosa nasceva questo “eroismo”?  Forse dal semplice fatto che le sue traduzioni  erano sempre condotte ai limiti dell’osmosi, rispettando sempre la diversità e la molteplicità delle voci  con le quali dialogava. Traduzioni – come scrisse Luc Hernande – “da mozzare il fiato”.

Passando alla produzione poetica in Sardegna, Marc se ne era già occupato in un altro ormai lontano millennio. ”Les cahiers de poésie-rencontres ”nel maggio del 1992 – La poésie sarde contemporaine”- dedicavano l’intero N° 33 a sette poeti sardi. Nell’ordine: Antonio Cossu, Ignazio Delogu, Gigi Dessì, Grazia Dore, Francesco Masala, Lucia Pinna, Bruno Rombi.

Per quanto refrattario a qualsiasi ideologia identitaria, nella sua poesia i riferimenti alla Sardegna, una sorta di “terralonge” come una terra contemplata nella distanza, sono una presenza incombente, quasi ossessiva e struggente evocazione nel segno del distacco, dell’erranza e dell’emigrazione. Eppure di un possibile/impossibile ricongiungimento.

Penso in particolare a »Ritorno in Sardegna », a “Vecchie donne di Sardegna”, a “Immigrare”, a “Mi accosterò all’isola”, “Lettera a Gramsci” eccetera.  Se la mia è stata una “fuga da”, come progressivo allontanamento, quella di Marc si declinava come “fuga verso”, in quanto quasi ineluttabile ri-avvicinamento e come progressivo ricongiungimento all’Isola. Punto d’arrivo vissuto come un’origine, sognato e patito come luogo di partenza e quasi “destinato” ritorno.

Quella che per l’antenato del mito – diventato mito fondativo della sua poesia – era stata la temeraria traversata verso le coste africane e l’abbandono di tutto; per Marc non poteva trasmutarsi, quasi sortilegio, che in uno struggente sogno di viaggio a ritroso. Quasi simbolicamente, sorte che fosse, la “Navicella d’argento” con la quale era stato premiato qualche anno fa in Sardegna, rendeva reale il sogno. Viaggio pressoché simile e tutt’altro che immaginale a quello tragicamente reale affrontato oggi da una moltitudine di disperati.

Marc tornava a casa. Il cerchio si chiudeva. La sua vicenda su questa terra poteva dirsi conclusa. Il ritorno in Sardegna cantato nelle “mémoires de l’exil” si compiva.

  Lui cammina
anche se camminare non basta più
apre il paesaggio
lui cammina
e nella terra i suoi passi
hanno un rumore di aratura
Avanza all’indietro
attraversato da una parola
e dai suoi occhi le acque
a poco a poco
si ritirano.                                

Ma le cose sono e continueranno a essere.  Rimarrà ciò che Marc ha costruito come insegnante nelle banlieues tra i ragazzi più emarginati, dando corpo poetico a una realtà misconosciuta. Rimarrà l’amore che ha saputo offrire, l’amore che ha meritato, il lascito testamentario che nella sua poesia ci ha trasmesso. Sarà compito di chi non lo dimentica dargli un senso.

« Souvenez-vous de nous
quand nos villes périront ».

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