Turchia e dintorni. La Turchia non è Istanbul
1 Luglio 2018[Emanuela Locci]
Le elezioni turche del 24 giugno scorso hanno decretato il vincitore: Recep Erdoğan. Le percentuali parlano chiaro, il presidente riconfermato ha ottenuto il 52,7% delle preferenze, mentre in Parlamento la sua coalizione (si presentava insieme al partito nazionalista MHP e all’islamista BBP) ha ottenuto il 53,6% pari a 342 seggi su un totale di 600. Il solo AKP ha avuto il 42,4% dei suffragi, in calo rispetto alla tornata elettorale del 2015 quando ottenne il 49,5%. A parte registrare un effettivo calo dei consensi all’AKP, la vittoria è stata comunque schiacciante.
Erdoğan ha completamente travolto l’opposizione rappresentata dal CHP, dal IYI, dal Saadet, e dal DP, che ha ottenuto solo 191 seggi. In qualche modo è andata meglio al partito filo curdo HDP che ha portato a casa un risultato storico, considerando gli anni di oppressione che ha vissuto, e considerando anche che molti dei suoi esponenti di spicco sono da anni in prigione, primo tra tutti uno dei suoi leader Selahattin Demirtaş che insieme a Figen Yüksekdağ Şenoğlu ha retto le sorti del partito, fino all’arresto di entrambi. L’HDP ha superato lo sbarramento del 10% previsto dalla legge elettorale turca e ha ottenuto 67 seggi in Parlamento, si presume che il risultato sia stato ottenuto anche grazie al voto di chi non aveva mai votato per questo partito, ma non vuole vederlo sparire dal panorama politico turco.
A una settimana dalle elezioni si potrebbe azzardare un’analisi del voto, ma essa sarebbe inquinata dalla situazione anomala che sta vivendo la Turchia, e non da oggi. La campagna elettorale è stata fortemente influenzata dalle condizioni imposte dallo stato di emergenza che dura ormai dall’estate 2016. La libertà di espressione è stata sospesa, come del resto la possibilità di accedere ai mezzi di comunicazione di massa. In queste condizioni sfavorevoli i partiti all’opposizione hanno dimostrato molto coraggio a prescindere, scendendo in campo, anche se sapevano che il loro diritti non sarebbero stati rispettati.
Un altro aspetto da considerare è che le elezioni sono state repentinamente anticipate, questo è un arbitrario uso del potere da parte del partito al governo. Da più parti si sono levate voci contro brogli e violazioni dei diritti, ma probabilmente il risultato del voto non sarebbe cambiato di molto. Infatti, se si studiano i risultati elettorali provincia per provincia non si può che notare che l’AKP ha nelle sue mani l’Anatolia, la parte centrale della Turchia, dove maggiore è l’arretratezza, dove è più basso il livello di istruzione e dove vivono molti giovani che hanno votato Erdoğan perché credono nel suo disegno egemonico di “Yeni” “nuova” Turchia. La Turchia anche in questo caso è divisa in due, anzi in tre: la parte anatolica nelle mani dell’AKP, che ha registrato percentuali intorno al 70% mentre in diretto avversario politico arrivava a malapena al 20%.
La parte geografica in cui si collocano le città come Istanbul, Smirne, ecc. è in mano al CHP che però non raggiunge percentuali di scarto alte come quelle presenti in Anatolia. La terza parte della nazione, quella a sud est è in mano al partito filo curdo. Il risultato elettorale è lo specchio della nazione. Erdoğan possiede l’Anatolia e questo significa possedere la Turchia, ma questo lo aveva già detto Atatürk cento anni fa. Il forte divario tra il presidente e il candidato del CHP İnce ha dimostrato ancora una volta che il primo ha in mano il paese, che la sua politica nazionalista, ha presa sulla popolazione, anche se quest’anno ha dovuto allearsi per rimanere alla guida del paese. I partiti di opposizione non sono rappresentativi della Turchia, o meglio sono rappresentavi di una parte minoritaria filo occidentale, che però non è lontana dal turco medio che ormai da anni si riconosce nel suo presidente. Lo stesso presidente che avrà poteri sempre più ampi in conformità alla riforma costituzionale del 2017, che ha scontentato i partiti di opposizione che però non sono riusciti a fermare la stagione riformatrice di Erdoğan.
Un altro dato eclatante che si riscontra è il successo, per certi versi inaspettato della compagine del MHP il partito nazionalista che nell’ottobre scorso ha patito la scissione interna di una delle sue esponenti di maggiore fama, Meral Aksener, che non aveva accettato di buon grado che il suo partito appoggiasse Erdoğan nella riforma costituzionale del 2017, ha riportato una grande vittoria e grazie a questo risultato è diventato l’ago della bilancia del potere politico in Turchia. Infatti, senza i suoi seggi Erdoğan non avrebbe la maggioranza in Parlamento.
Inequivocabilmente la Turchia sta prolungando volutamente questa stagione storica in cui il paese è ben lontano dei principi di stampo occidentale che l’avevano avvicinata all’Europa nella prima fase di storia repubblicana e che fino a qualche decennio fa spingevano i governi che si sono susseguiti al potere a richiedere la piena adesione all’Unione Europea. Certo è che anche noi occidentali dovremo abbandonare la nostra visione eurocentrica ed entrare nell’ottica di ritenere che quello che vediamo e conosciamo della Turchia, e spesso ci si riferisce alle grandi città o alla capitale storica, Istanbul, non è la Turchia nel suo insieme.
La Turchia non è Istanbul, la Turchia è molto di più. È un insieme eterogeneo di società, di situazioni, che rendono il paese fragile, frammentato, ma nello stesso tempo unito su un nome: quello del suo presidente, e il risultato elettorale lo ha dimostrato in tutta la sua pienezza. Dove questo porterà la nazione non è dato sapere, si attendono gli avvenimenti.
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