L’Italia legata alle sorti dell’euro e a quelle del blocco produttivo ad egemonia tedesca
16 Luglio 2018[Gianfranco Sabattini]
Il n. 5/2018 del mensile “Limes” raccoglie un insieme di contributi tutti volti a formulare una plausibile valutazione di quanto valga oggi l’Italia (di quale sia, in particolare, il suo peso politico ed economico all’interno dell’Europa comunitaria), partendo dall’assunto che i suoi “mali” sono per lo più riconducibili all’irresponsabilità dei propri cittadini, impegnati da tempo, da incoscienti, a “far saltare tutto”. Il “tema del mese” del periodico è, come sempre, formulato e circoscritto dall’Editoriale, che invita gli italiani a provare a resistere, considerando che l’incoscienza di molti è valsa ad affievolire la capacità di resistenza, al punto da indurre a pensare che il Paese non valga realmente nulla.
L’inizio dell’Editoriale inquadra il tema in un contesto globale, affermando che l’Italia nata dopo la caduta del fascismo, nonostante il processo di modernizzazione sperimentato a livello economico e sociale, “è sempre stata il Sud del Nord e l’Est dell’Ovest”; oggi, però, a causa dell’irresponsabilità forse della maggioranza dei propri cittadini, il Paese sta rischiando di “scadere a Nord del Sud e Ovest dell’Est”, per via del fatto che, al proprio interno, lo storico fossato tra Settentrione e Mezzogiorno, da sempre causa di divisione degli italiani e della loro scarsa affezione al processo di unificazione politica dell’europa, stia continuando ad approfondirsi.
Tutto ciò, secondo l’Editoriale, concorre ad allontanare l’Italia dall’“infragilito baricentro europeo” e a coinvolgerla nel clima di incertezza che trae origine dai conflitti oggi esistenti tra molti Paesi mediterranei e dalla debolezza dei loro regimi politici. La situazione, inoltre, sempre secondo l’Editoriale, distanzierebbe l’Italia anche dalle proprie tradizionali alleanze, in presenza di una tendenza ad allontanarsi dal sogno europeista, al quale, con l’adesione ai Trattati di Roma, si era inteso affidare “il Paese immaturo perché ne correggesse i vizi di postura, l’atavico deficit di statalità”. Il risultato di quell’affidamento sarebbe oggi che l’Italia è tra i Paesi comunitari che meno gradiscono l’affiliazione all’Unione Europea e all’area che ha adottato la moneta unica.
Quest’ultimo fatto sarebbe all’origine della perdita di vista da parte degli italiani della “misura” del loro Paese, nonostante che, sempre secondo l’Editoriale, esso valga più di quanto pensa di valere, sicuramente più di quanto vorrebbe e “ancora più di quanto gli Stati dell’Eurozona gradirebbero”. Eppure, l’idea di quanto l’Italia valga realmente è lontana dal convincimento dei propri cittadini, inducendo gli osservatori stranieri a rimanere “sospesi tra incredulità, dileggio e apprensione […], colpiti dal provincialismo del ceto politico, paradossale in un Paese dall’economia estroflessa”.
Di qui la preoccupazione insorta nelle cancellerie europee dopo le ultime elezioni politiche che hanno registrato il successo di Lega e M5S, formazioni politiche “non conformi al galateo atlantico europeista, ineducate alle maniere e alle astuzie della diplomazia internazionale”. Le capitali europee, soprattutto Berlino e Parigi, paventano perciò che, se l’Italia non dovesse riuscire a correggere la rotta che i partiti ora al governo intendono farle percorrere, essa (l’Italia) sarà responsabile della distruzione dell’euro e dell’Unione Europea; ciò a causa degli squilibri cui l’azione delle nuove forze governative darebbe origine a livello dell’”intero assetto euroatlantico”, con effetti imprevedibili, “ma – a parere dell’Editoriale – certamente sistemici. Perché sistemica è a suo modo l’Italia, o almeno tale è percepita da chi ne condivide la moneta”.
Sono vere le preoccupazioni destate negli altri Paesi comunitari dalle potenziali minacce, evocate ai danni dell’euro e del progetto europeo dai risultati elettorali conseguiti in Italia da forze politiche critiche nei confronti delle istituzioni bruxellesi? Un autorevole economista tedesco, Clemens Fuest, presidente dell’”Institute for Economic Research di Monaco” (IFO), ha di recente dichiarato all’”HuffPost” (un blog noto fino al 2016 come The Huffington Post) che con “l’Italia ancora in stagnazione, se dovesse di nuovo andare in crisi, l’euro fallirebbe.
Nella fase attuale, secondo Fuest, il vero Stato da tenere d’occhio sarebbe solo uno: l’Italia; perché l’avvento di una crisi finanziaria originata dall’Italia, che dovesse colpire duramente la Germania, “sarebbe l’unico evento che potrebbe far davvero saltare l’euro e l’eurozona”. Il salvataggio greco in confronto verrebbe a configursi “come un gioco da ragazzi”.
Il pericolo imputabile all’Italia paventato dalla Germania, ai danni della propria economia, dell’intera eurozona e del progetto europeo, per via della possibile crisi della moneta comune, induce Fuest ad affermare che, per prevenire che esso possa materializzarsi, sarebbe plausibile adottare a livello comunitario una clausola che consentisse a qualsiasi Paese in continuo stato di stagnazione di abbandonare la moneta unica. Ciò perché, a suo parere, l’Europa ha bisogno di stabilità, che la situazione italiana ha sempre reso instabile, in quanto la decisione di ammettere l’Italia nel “gruppo di testa dell’euro” è stata assunta solo per ragioni politiche; dal punto di vista strettamente tecnico, l’Italia, per Fuest, non era nella condizione di rispettare “i termini d’ingresso”. Su quella decisione ha pesato il fatto – afferma Fuest nell’intervista concessa a Tonia Mastrobuoni, il cui testo è pubblicato su Limes (n. 5/2018) – che “per l’industria tedesca spariva un ostacolo rilevante per esportare in Paesi come [l’Italia], usi a svalutazioni competitive” (Beata sincerità!, verrebbe da dire, dalla quale però Fuest non deriva le necessarie implicazioni).
Al parere di Fuest sembra aderire Sabino Cassese che, in un’intervista (concessa a Luca Caracciolo e Niccolò Locatelli, il cui testo è anch’esso pubblicato su Limes n. 5/2018 col titolo “Il vincolo estero come rimedio al deficit di Stato”), afferma che il “vincolo esterno” alla sovranità, espresso dall’adesione del Paese al gruppo di testa dell’euro, sarebbe stato determinato dalla volontà del Paese di autoimporselo, per via della consapevolezza del proprio deficit di statalità e nella convinzione che l’associazione al novero dei Paesi virtuosi europei sarebbe valsa a trasformarla in Paese virtuoso.
In tal modo – era questo il ragionamento prevalente – sarebbe stato possibile fare fronte al deficit di statalità, dovuto al fatto che l’Italia, pur dopo il conseguimento dell’unificazione politico-territoriale, è rimasta divisa sul piano economico e sociale è rimasta divisa; divisione che, nonostante brevi periodi di convergenza vissuti dalle due macro aree (quella settentrionale e quella meridionale), non solo si è conservata, ma negli ultimi decenni si è addirittura approfondita, rappresentando cosi anche una causa della fragilità del sistema-Paese, la quale, prefigurando un continuo pericolo di instabilità per il resto dell’Europa comunitaria, espone l’Italia alla possibile estromissione dall’eurozona.
A questa possibile estromissione non credono Paolo Caselli a Gabriele Pastrello, che in “Senza l’Italia salta l’euro ma anche l’Europa tedesca” (Limes n. 5/2018), affermano che l’Italia è troppo importante perché la sua estromissione dall’area euro non comporti una “crisi tale da colpire anche Berlino”. Ciò, a parere degli autori, avverrebbe perché la globalizzaziome, il ruolo sempre più importante della Germania in Europa e nel mondo e la crisi persistente dell’Italia sono fenomeni oggi così “strettamente connessi” che l’uscita dell’Itali dall’euro non tarderebbe a causare la diffusione di una crisi in tutta l’area europea. Perché, secondo Caselli e Pastrello, ciò accadrebbe?
Con la globalizzazione, iniziata negli anni Settanta del secolo scorso e basata sul ruolo delle tecnoscienze informatiche – argomentano gli autori – si è avuta una destrutturazione del sistema produttivo mondiale; la disarticolazione produttiva, che ne è seguita ha comportato “l’integrazione nella rete di grandi imprese multinazionali di segmenti della fabbricazione di un prodotto finale”. Le produzioni dei segmenti produttivi disarticolati “a un livello molto vicino al prodotto finale” venivano assemblate all’interno del Paese che provvedeva alla sua distribuzione commerciale nel mondo; in questo modo, il processo produttivo veniva “‘spacchettato’ in varie fasi, ma le unità produttive decentrate [dovevano] produrre le parti intermedie secondo criteri di efficienza e produttività proprie dell’impresa madre”, ma con l’utilizzazione di know-how tecnologico non sempre disponibile all’interno del Paese assemblatore.
Anche in Germania, all’inizio degli anni Novanta, l’industria manifatturiera tedesca – affermano Caselli e Pastrello – “ha cominciato a decentrare fasi della propria produzione nei vicini Paesi” (soprattutto dell’Est europeo); tale processo, favorito dal basso costo della forza lavoro e dalla vicinanza geografica dei Paesi delocalizzatori, ha promosso la formazione di un “blocco produttivo tedesco” al quale si sono aggiunte le economie, dopo quelle dei Paesi dell’Est europeo, di altri Paesi economicamente più avanzati, come l’Olanda e l’Austria, ma anche, in tempi successivi, “pezzi rilevanti” dell’industria manifatturiere delle regioni del Nord dell’Italia.
Anche l’economia italiana, perciò, per via delle sue molteplici interrelazioni industriali approfonditesi con la Germania, risulta integrata (sia pure per il tramite della parte del Paese economicamente più avanzata) nel blocco produttivo tedesco. La formazione di tale “blocco”, secondo Caselli e Pastrello, “ha provocato la trasformazione della Germania da Paese esportatore (soprattutto di prodotti finiti) a piattaforma industriale, ovvero, a centro di distribuzione territoriale delle fasi produttive del “blocco”, i “cui risultati vengono convogliati nel Paese centrale la cui industria è in gran parte dedicata all’assemblaggio”.
Stando così le cose, la Germania, nel momento in cui sono in corso di ridefinizione le relazioni economiche tra le grandi aree economiche del mondo non ha ora alcun interesse a vedere restringersi l’area dell’euro, a causa della fuoriuscita dall’eurozona di qualche Paese che attualmente ne fa parte. Ciò perché l’eventuale uscita di uno dei Paesi membri dell’eurozona determinerebbe il venir meno, non solo dei vantaggi dei quali l’economia tedesca ha goduto grazie al mercato interno europeo (che gli economisti tedeschi, come Clement Fuest, tendono ad ignorare), ma darebbe origine a conseguenze negative per tutta l’Europa comunitaria, cui “nemmeno la potente economia tedesca – concludono Caselli e Pastrello – potrebbe sottrarsi”.
Per le ragioni indicate, sono allarmistiche le dichiarazioni di Fuest, perché l’Italia, pur con tutte le sue debolezze, è un Paese troppo importante (a dispetto di quanto sia disposta a riconoscere la maggioranza dei suoi cittadini) per farlo fallire, ma soprattutto troppo importante perchè si continui a conservarlo nell’area dell’euro. Ciò perché, la sua eventuale uscita dall’eurozona sarebbe traumatica, non solo per l’Italia stessa, ma soprattutto per la conservazione dell’area valutaria europea che, sia pure ad egemonia tedesca, non sarebbe in grado di reggere il confronto con le altre aree valutarie competitrici e di continuare a perseguire il processo dell’integrazione del Vecchio Continente.
Ovviamente, ciò non significa che l’Italia non debba e non possa utilizzare il “peso” economico che riveste, ai fini della conservazione e dell’ulteriore potenziamento dell’area valutaria europea ad egemonia tedesca, per promuovere un processo di revisione dei meccanismi della moneta unica, giudicati penalizzanti per l’economia di molti dei Paesi membri; meccanismi che sono da tutti considerati la causa dei persistenti surplus delle bilancia commerciale tedesca, ai quali sono altrettanto riconducibili le situazioni di stagnazione delle economie di altri Paesi comunitari, tra i quali l’Italia.
Tuttavia, l’Italia deve cessare di fare affidamento sugli “aiuti esterni” per rimuovere le proprie debolezze; a tal fine, dovrà pensare a come attenuare gli effetti negativi esercitati sulla propria economia dal tradizionale problema del Mezzogiorno; l’eventuale soluzione di quat’ultimo, oltre a contribuire a realizzare una maggior considerazione per il proprio Paese da parte degli italiani, rappresenterebbe anche un valido supporto per consentire alla struttura produttiva delle regioni del Nord di conservare all’interno del blocco produttivo ad egemonia tedesca il necessario peso economico, al fine di assicurare all’Italia il riconoscimento, da parte dell’estero, della sua valenza, affrancata da ogni possibile dileggio.