La crisi dei partiti della sinistra secondo Srnicek e Williams
16 Dicembre 2018[Gianfranco Sabattini]
Nick Srnicek e Alex Williams al loro “Manifesto accelerazionista” (scritto nel 2013) hanno fatto seguire, nel 2015, il volume “Inventare il futuro. Per un mondo senza lavoro”. Il libro contiene uno sviluppo delle tesi già esposte nel “Manifesto”, articolato in una severa diagnosi della crisi dei partiti tradizionali della sinistra, con la formulazione di una proposta per una loro rivitalizzazione, attraverso l’”invenzione” di un possibile futuro, che il capitalismo, nella sua coniugazione neoliberista, ha rimosso dall’immaginario collettivo.
Mentre la diagnosi della crisi dei partiti della sinistra è nella sostanza condivisibile, la proposta, rispetto al modo in cui è formulata e alle modalità della sua realizzazione, risulta ridondante, sino a comprometterne la desiderabilità e la fattibilità.
Sulla crisi della sinistra, Srnicek e Williams esordiscono col dire che la debolezza che attualmente la affligge non è attribuibile esclusivamente a cause esterne; una diagnosi onesta – essi affermano – deve essere formulata assumendo la presenza anche di cause esterne, la principale delle quali è individuata nella diffusa e acritica accettazione di un pensiero basato su quella che gli autori chiamano “folk politics”. Questa espressione viene adottata per indicare “un insieme di idee e intuizioni che, all’interno della sinistra contemporanea, guida il senso comune da cui discendono organizzazione, azione e pensiero politico”; si tratta in sostanza di un complesso di presupposti strategici che hanno indebolito la sinistra, “rendendola incapace di nutrire ambizioni di crescita, di generare cambiamenti duraturi e di espandere l’orizzonte dei propri interessi”. Adottando la folk politics, i partiti della sinistra si sono illusi di poter rispondere alle crisi ricorrenti provocate dal capitalismo contemporaneo, riportando l’attività politica ad una scala umana, quindi “enfatizzando un’immediatezza che è contemporaneamente temporale, spaziale e concettuale”.
A parere di Srnicek e Williams, dal punto di vista dell’immediatezza temporale, la folk politics ha condotto i partiti della sinistra ad essere generalmente reattivi, nel senso che essi, piuttosto che agire di propria iniziativa, tendono a “reagire” alle azioni poste in essere da altri, “ignorando gli obiettivi strategici a lungo termine in favore di tattiche di corto respiro” e sopravvalutando gli esiti attesi da processi di mobilitazione dell’opinione pubblica su singole rivendicazioni. Dal punto di vista spaziale, con la folk politics i partiti della sinistra, hanno prediletto come spazio di autenticità delle loro iniziative il “locale”, preferendo sostenere progetti comunitari non riproponibili su scala più ampia, tendendo “a rigettare qualsiasi progetto egemonico” e a privilegiare “la fuga e il ritiro interiore a scapito della costruzione di una controegemonia di ampio respiro”. Infine, dal punto di vista concettuale, con la folk politics, i partiti della sinistra hanno acquisito un “marcata preferenza per il quotidiano rispetto allo strutturale […], per il sentire contro il pensare […], per il particolare contro l’universale […] e per l’etico contro il politico”.
Considerando insieme la tre dimensioni dell’immediatezza della folk politics (temporale, spaziale e concettuale), fatte proprie dai partiti della sinistra contemporanea, questi, secondo Srnicek e Williams, hanno perso la cognizione del fatto che l’immediatezza, pur essendo un elemento necessario, non è sufficiente a consentire di strutturare “un qualsiasi progetto politico” col quale contrapporsi alla politica delle forze della destra; per questo motivo, i partititi della sinistra hanno mancato di disporre di strumenti adeguati per contrastare il capitalismo nella sua versione neoliberista. Partendo dalle loro considerazioni critiche, Srnicek e Williams si propongono di delineare, per i partiti della sinistra contemporanea, una possibile strategia politica alternativa alla folk politics, fondata non su un ritorno alle politiche conservatrici del passato, ma su una prospettiva d’azione basata sulla combinazione di “un modo aggiornato di pensare la politica (muovendo dall’immediato all’analisi strutturale) con un modo migliore di fare politica (indirizzandone l’azione verso la costruzione di piattaforme e l’allargamento di scala)”.
A tal fine, a parere di Srnicek e Williams, i partititi delle sinistra dovranno tener conto del fatto che il mondo multipolare delle politiche globali e l’instabilità economica propria del capitalismo contemporaneo hanno reso impossibile ogni tentativo di “ricomporre” il succedersi delle crisi in una “narrazione strutturata”; ciò perché ciascun elemento della narrazione (economia, politica nazionale e internazionale, lotte tra i sistemi economici per conquistare il controllo delle fonti energetiche, ecc.) ha assunto una dimensione tale da condizionare il mondo intero, i cui effetti sono divenuti così estesi e complessi da rendere impossibile un’esatta collocazione dell’esperienza umana nel loro contesto complessivo. Ancora più importante – continuano Srnicek e Williams – è stato il fatto che è venuta meno la possibilità di disporre di una “mappa cognitiva” delle forze influenzanti il funzionamento del sistema socioeconomico mondiale.
Per le forze della sinistra, ancora tra l’Ottocento e l’inizio del Novecento, l’analisi delle forze che alimentavano il funzionamento del sistema socioeconomico mondiale offriva la possibilità di interpretare e comprendere la totalità delle relazioni economiche e sociali e, quindi, di elaborare una chiara strategia per fronteggiare le criticità che di momento in momento insorgevano, sia a livello di ciascun Paese, che a livello internazionale. Ora, la complessità dell’intero sistema socioeconomico globale si è estesa a tal punto da rendere impossibile, ritengono Srnicek e Williams, il miglioramento della condizione umana senza la “creazione di nuove mappe cognitive, di nuove narrazioni politiche, di nuovi modelli economici, e di nuovi meccanismi di controllo collettivo”. Gli anni Settanta del secolo scorso sono stati quelli della svolta: crisi dei mercati energetici e delle materia prime, fine degli accordi di Bretton Wooods, insolvibilità dei crediti accumulati dai Paesi industrializzati nei confronti dei Paesi arretrati, persistente stagflazione e instabilità monetaria rappresentano l’insieme degli eventi che hanno incrinato l’accordo tra capitale e lavoro sul quale erano state calibrate le politiche economiche keynesiane del dopoguerra.
Tutto ciò si è tradotto – affermano Srnicek e Williams – in un’opportunità, sia per le forze della destra, che per quelle della sinistra: “quella di generare una nuova egemonia” che consentisse di superare la persistente situazione di crisi globale. La destra è stata rapida nell’affrontare con successo la crisi da posizioni egemoniche (acquisite sulla base di una piattaforma di riflessioni critiche sulle sorti del capitalismo accumulate in decenni di lavoro e di studi da parte di economisti operanti nelle università di tutto il mondo e riuniti, dopo il 1947, nella Mont Pelerin Society, animata sul piano organizzativo da Friedrich von Hayek e Milton Friedman); per contro, la vecchia sinistra si è dimostrata incapace di confrontarsi con le forze in campo allora emergenti, e il risultato è stato “una sinistra sempre più periferica e marginalizzata”, e quando il neoliberismo è riuscito ad imporsi “sul senso comune” le forze della sinistra tutta, inclusi i partiti socialdemocratici, hanno finito “lentamente per accettarne le condizioni”, consistenti in una crescente riduzione del potere contrattuale della forza lavoro e in una radicale riduzione dell’intervento dello Stato in economia.
Dopo la severa diagnosi negativa “sui limiti della sinistra contemporanea”, Srnicek e Williams passano a formulare la loro proposta, consistente nel prospettare una possibile via d’uscita dalla condizione in cui versano i partiti delle sinistra tradizionale. Secondo i due autori (giovani ricercatori inglesi della sinistra radicale), “un elemento fondamentale per una sinistra che voglia davvero essere futuribile è la riattivazione del concetto di ‘modernità’”. Poiché la folk politics, praticata sinora dai partiti della sinistra, ha mancato di proporre la visione di un futuro desiderabile e condiviso, il ricupero della modernità dovrà partire dal significato che le è intrinseco: quello di prospettare un futuro migliore del presente.
Intesa in questo senso, la modernità per le forze della sinistra dovrà implicare una rottura tra passato e presente e prefigurare un futuro “come potenzialmente differente e migliore del passato” e, dunque, proiettare il presente a legarsi “alle nozioni di progresso, avanzamento, sviluppo, emancipazione, liberazione, crescita, accumulazione, illuminismo, miglioramento e avanguardia”. In tal modo, le forze della sinistra potranno ricuperare il proprio senso del progresso, senza che questo (tenendo conto del fatto che gli eventi negativi del XX secolo hanno dimostrato che la storia non procede “lungo binari predeterminati”, nel senso che la regressione è tanto probabile quanto il progresso) presupponga esiti predefiniti, e venga perciò considerato come un prodotto della dialettica politica, il cui successo non sia mai garantito.
Contrastare le crisi del capitalismo sulla base di un concetto di progresso così inteso significa, secondo Srnicek e Williams, che le forze della sinistra devono “prefiggersi come obiettivo la costruzione di qualcosa di nuovo. La strada per il progresso – essi affermano – va costruita, e non semplicemente percorsa seguendo indicazioni prestabilite: è una faccenda di conquiste politiche (c.m.) e non di doni dispensati da qualche divina (o terrestre) provvidenza”. Ma un futuro permeato di un senso del progresso basato sulla costruzione di “qualcosa di nuovo” implica il trascendimento del presente ordine globale, fondato sul lavoro salariato e su un’accumulazione senza fine; in altre parole, per Srnicek e Williams, una “modernità di sinistra” (idonea a contrastare il capitalismo neoliberista) implica la costruzione di una piattaforma che indichi come riorganizzare, sia il funzionamento del sistema economico, sia le modalità di distribuzione del prodotto sociale.
La costruzione di “qualcosa di nuovo”, a parere di Srnicek e Williams, deve essere perseguita attraverso “conquiste politiche” e non attraverso azioni di “stampo rivoluzionario”; queste, unitamente a quelle di stampo “riformista”, sono da considerarsi inutili e prive di ogni possibilità di successo. Srnicek e Williams ritengono che le condizioni materiali del mondo attuale giustifichino il perseguimento possibile e desiderabile, da parte delle nuove forze della sinistra, di una organizzazione sociale “post-lavoro”. A tal fine, una politica di sinistra moderna dovrà innanzitutto perseguire la realizzazione di una riorganizzazione del funzionamento del sistema economico fondata su una completa automatizzazione, in modo da consentire, grazie agli sviluppi tecnologici recenti, la liberazione dell’umanità “dalla schiavitù del lavoro” e allo stesso tempo produrre una “quantità di ricchezza sempre maggiore”. Una riorganizzazione siffatta dell’attività produttiva causerà la liberazione di una grande quantità di tempo libero, senza una riduzione del risultato economico complessivo.
Il tempo libero, però, osservano Srnicek e Williams, “non servirà a nulla”, se le persone liberate dal lavoro non potranno disporre di un “reddito di base”, tale da fornire “una quantità sufficiente di reddito per permettere la sopravvivenza”, essere erogato “a tutti e senza discriminazioni” e supplementare al welfare State realizzato. Ciò, al fine di evitare che tale erogazione possa diventare il “vettore per un incremento della mercificazione, trasformando i servizi sociali in mercati privati; per evitare questo pericolo, il reddito di base dovrà configurarsi “come un’integrazione a un nuovo tipo di Stato sociale”.
Perché un simile progetto politico possa avere successo, le nuove forze della sinistra dovranno essere consapevoli che la riorganizzazione post-lavoro del processo produttivo porrà l’obiettivo del perseguimento della transizione “dalla socialdemocrazia postbellica” a un nuovo contesto sociale e politico, in grado di legittimare il contrasto da esercitare da posizioni egemoniche nei confronti del capitalismo neoliberista.
E’ questo, concludono Srnicek e Williams, il compito che le nuove forze della sinistra devono prepararsi a svolgere; se esse vorranno realmente rimanere rilevanti e politicamente influenti, dovranno prepararsi a gestire, in alternativa al capitalismo neoliberista, le potenzialità e gli sviluppi offerti dal mondo tecnologico attuale; ciò, nella convinzione che il neoliberismo, “per quanto possa oggi apparire intoccabile, non offre garanzie di sopravvivenza a lungo termine. Come tutti i sistemi sociali che l’hanno preceduto, non durerà per sempre”. Il compito attuale della sinistra dovrà perciò consistere, oltre che nella gestione politica della transizione e nell’organizzazione della società del post-lavoro, anche nell’“inventare quanto arriverà poi”.
Le notazioni critiche di Srnicek e Williams, riguardo alla resa delle forze di sinistra alla logica di gestione del sistema produttivo del capitalismo neoliberista, possono essere, come si è già detto, condivisibili. Ugualmente condivisibile può essere quella parte della loro proposta di rinnovamento della sinistra circa il ruolo e l’importanza del progresso tecnologico, reso possibile dal continuo progresso del sapere contemporaneo; progresso, questo, che può sicuramente giustificare ogni proiezione della fantasia creativa volta a prefigurare possibili remoti futuri.
Tuttavia, la parte normativa della proposta di Srnicek e Williams appare così fuori dal mondo, da farla apparire, quale essa è, un esercizio mentale, volto a consolare il loro desiderio di veder superato in tempi brevi il capitalismo contemporaneo. Se è giusto il loro suggerimento, rivolto alla sinistra, di aprirsi alla valutazione delle possibilità che il mondo contemporaneo può offrire (in alternativa a puri e semplici atteggiamenti resistenziali alla logica del capitalismo, per risolvere il problema della disoccupazione strutturale odierna), proporre un reddito di base (o reddito di cittadinanza) complementare al welfare State esistente, significa però perdere contatto con l’evidenza delle condizioni politiche, culturali, economiche e sociali in presenza delle quali la loro proposta complessiva dovrebbe trovare attuazione. Con la loro fuga in avanti rispetto al tempo presente, Srnicek e Williams mancano di valutare realisticamente tali condizioni e fanno correre il rischio che la stessa idea di reddito di base sia percepita, dall’immaginario collettivo, non solo inattuabile, ma anche non desiderabile. Il che varrebbe solo a rilanciare la condivisibilità dell’egemonia conquistata dal neoliberismo imperante.