Democrazia “del pubblico” e le prospettive della Sardegna
16 Dicembre 2018[Alessandro Mongili]
Sta nascendo un nuovo modo di esistere della democrazia? Oggi, due punti sono rilevanti. La fine del consenso intorno alle politiche neoliberali di privatizzazione, di riduzione dello Stato a ente di servizio per gli interessi oligarchici e finanziari e alle politiche internazionali fondate sull’uso della forza (da parte dei più forti). Di seguito, forze politiche di tipo nuovo, che si mostrano portatrici di una democrazia non più rappresentativa ma “del pubblico”, fondata sulla partecipazione diretta e su istituzioni come referendum, uso della rete, uso di competenze non titolate – queste ultime frutto di processi di apprendimento e elaborazione talvolta estranei alle vecchie istituzioni che garantivano la titolarità della competenza, cioè le Università e il sistema scolastico.
In Sardegna, ci siamo dentro da più di dieci anni. A parte i recenti tentativi restaurativi di Pigliaru, Zedda e altri sopravvissuti della nomenklaturedda, che insistono in politiche neoliberali e nel controllare il potere secondo modalità vetuste, abbiamo conosciuto la Giunta Soru. Essa ha cercato di porre un argine al neoliberalismo e di riformulare un’agenda politica sarda. È stata sconfitta nel 2009, grazie anche alla rivolta contro di essa dei gruppi d’interesse oligarchici, clientelari e familistici –interni ed esterni alla sinistra, e ha segnato la fine della sinistra tradizionale. Dal 2009 in poi la sinistra si è fatta destra, e viceversa. Le politiche del lavoro, della sanità, della scuola e dell’università, dei trasporti e delle infrastrutture, dei beni comuni, sono diventate indistinguibili. Per la gente comune si è creata una crisi di rappresentanza con pochi precedenti. Cioè, le persone escluse dai circuiti oligarchici si sono ritrovate senza alcun Santo a cui letteralmente votarsi.
In questo vuoto hanno avuto successo tre esperienze, di cui una è ancora in fieri. Sono caratterizzate da partecipazione e uso dei new media. La prima è stata Sardegna Possibile. Partendo da una cultura indipendentista, SP e la sua leader (primo esempio di leadership femminile non subalterna in Sardegna – cioè non messa lì da maschi), ha ottenuto un vasto consenso. Ha risposto al desiderio di partecipazione attraverso gli OST, uno strumento di democrazia del pubblico, coinvolgendo nell’elaborazione politica centinaia di persone nel corso della campagna elettorale del 2014. Non ha saputo usare la rete né superare l’agenda politica neoliberale. Finite le elezioni ha avuto difficoltà a trasformarsi in qualcosa di organizzato ma, come conseguenza inattesa, ha generato associazioni politiche come Gentes,, Sardegna possibile stessa, in parte Assemblea permanente, che hanno proseguito nel portare avanti esperienze di “democrazia del pubblico”.
La seconda è stata il Movimento Cinque Stelle. Quest’ultimo non ha sviluppato una grande partecipazione popolare ai processi decisionali (caratteristico è il ruolo di certi suoi cacicchi e leaderine), ha usato in modo ingegnerizzato e strategico la rete e ha ottenuto un consenso popolare enorme. A differenza di Sardegna Possibile e del Sorismo, ha superato il neoliberalismo e ha posto al centro le condizioni di vita delle persone ordinarie. Ha finalmente rinunciato alla retorica dell’”innovazione” e del “merito”, che viene prospettata come unica uscita dalle condizioni di vita mediocri dei ceti subalterni. Ha posto il problema del reddito, del salario, delle pensioni, delle tariffe esorbitanti per i beni comuni, della tassazione vorace e talvolta spietata. Cioè, i veri problemi dei più. Ma il M5S, franchising politico italiano, è lontano anni luce dai problemi della condizione sarda. Così, è indifferente alla nostra alienazione culturale e linguistica, base di ogni sottosviluppo, e si è prontamente allineato al Partito delle servitù militari e (temo) industriali e agricole, è muto sulla gestione dei trasporti, e l’elezione di un suo presidente alla RAS potrebbe riaprire una nuova fase coloniale.
La terza esperienza riguarda il salvinismo,. Esso si fonda in realtà, più che sulla democrazia del pubblico, sull’uso della rete e dei new media strategico e ingegnerizzato con il solo fine di orientare il consenso del pubblico verso le solite vecchie gerarchie di potere e sociali. Da noi ha rilanciato la mediazione con interessi esterni di spoliazione e di sfruttamento delle nostre risorse, garantita da clientele locali (fra cui spiccano quelle, di matrice democristiana, che hanno occupato il vecchio Psda), e usa per creare consenso un razzismo orrendo e spietato, senza cuore ma anche senza cervello.
Il tentativo sardoleghista apre un dossier interessante, cioè quello dell’uso della “democrazia del pubblico” da parte delle oligarchie, e della frammentazione e della debolezza degli interessi dei subalterni al suo interno. Se si analizza il fenomeno sotto il suo aspetto relazionale, si dovrà convenire che queste nuove forme di democrazia, non diversamente dalle vecchie, sono oggetto di lotta e di contesa. In sé, non garantiscono gli interessi dei subalterni e della gente ordinaria. Le oligarchie investono ormai tantissimo per cercare di evitare l’autoorganizzazione internet da parte dei subalterni. Nella comunicazione e nelle forme organizzative in rete si svolge di fronte ai nostri occhi una battaglia senza precedenti per l’egemonia culturale e politica, per il condizionamento delle coscienze e per la produzione di soggettività che sorreggano per convinzione il potere dei “soliti noti”. Grandi campioni di questo sono Putin, vero precursore, Salvini, Orbán, Trump, e lo Stato di Israele con la sua hasbarà, il sistema di propaganda che chiunque può incontrare sulla rete. Dalla dizinformacija sovietica si è passati all’hasbarà, che non a caso fa capo a un Ministero che si chiama “degli Affari Strategici”. Funzionano con troll, ma funzionano anche attraverso la creazione in menti fragili di soggettività razziste e aggressive. Hanno contrastato l’autoorganizzazione dei subalterni che, dalle primavere arabe ai gilets jaunes, ha avuto in questa fase il ruolo storico di far vacillare il pensiero unico neoliberale e, in Sardegna, di rilanciare la lingua sarda e il pensiero politico dell’autodeterminazione e dell’indipendentismo.
C’è poca coscienza di questo cambiamento, troppo spesso giudicato con le lenti opache dell’indignazione. La nostra cultura politica è stata resa sterile dalla rimozione del conflitto sociale e dell’idea di uguaglianza. In particolare, le idee neoliberali su crescita, modernizzazione e sviluppo come unico strumento di miglioramento delle vite ci ha resi ciechi di fronte all’alienazione culturale e linguistica che –fino alle fibre psichiche più profonde – stiamo subendo. Ha reso prioritaria l’idea dello sviluppo comunque, e ci distrae dalla battaglia culturale e mediatica, che, come ci insegna il caso catalano, deve essere organizzata e strategica, e impiegare a nostro profitto new media e internet. Purtroppo tutta la cultura politica in Sardegna è chiusa di fronte al mondo ma apertissima e serva rispetto all’Italia. È ridicolo, ma è così in tutti gli ambiti. Purtroppo, rispetto al nostro popolo e alla sua condizione siamo più estranei di molti turisti, per riprendere un’idea di Gramsci.
Perfino nel mondo indipendentista ci si ritrova di fronte a questa contraddizione. Celebra Antoni Simon Mossa, ma è lontano dal suo cosmopolitismo, e convinto, in puro stile coloniale, che parlare italiano apra al mondo e ci faccia comprendere “all’estero”. L’indipendentismo sardo è legato ai miti nominalistici e formalistici della cultura italiana, è troppo italocentrico, non ha energie da spendere sulla battaglia culturale per l’egemonia. Spesso, nega perfino l’esistenza del colonialismo.
Ma noi non esisteremo al di fuori dei nuovi spazi della “democrazia del pubblico”, dei mondi della comunicazione many-to-many e della formazione di competenze fuori dai circuiti tradizionali. A volte, si ha la sensazione che questo cambiamento non lo si voglia neanche vedere.
20 Dicembre 2018 alle 20:30
Il “pubblico” cui mi riferisco corrisponde a quello che si definisce come un comportamento collettivo in sociologia, che caratterizza le società democratiche, in cui al posto della folla che segue una sola indicazione, ci si divide su un argomento. Il riferimento è Robert Ezra Park e il suo lavoro classico su La folla.