Le illusioni della globalizzazione
4 Gennaio 2019[Gianfranco Sabattini]
Dopo il crollo del Muro di Berlino, politici ed élite economiche dominanti hanno profuso il loro impegno nel liberare il mercato dalle regole che nei decenni precedenti avevano consentito il miglioramento delle condizioni di vita delle popolazioni di gran parte dei Paesi ad economia di mercato, retti da istituzioni democratiche. Alla fine degli anni Ottanta del secolo scorso, dopo l’affermazione dell’ideologia neoliberista, vi è stata un’ulteriore accelerazione nel processo di liberalizzazione del mercato, nella prospettiva che, attraverso la globalizzazione, l’integrazione delle economie nazionali, la finanziarizzazione del mercato globale e la riduzione della tassazione a carico delle imprese e delle persone fisiche, fosse possibile realizzare a livello globale le stesse aspettative di crescita e sviluppo che, alcuni anni prima, avevano giustificato in Europa l’istituzione dell’eurozona e del sistema-ero.
Si riteneva che la diminuzione della tassazione e la liberalizzazione del mercato avrebbero incentivato l’economia, ed entrambe avrebbero promosso una crescita globale tale da migliorare le condizioni di vita di tutti i Paesi, contribuendo anche a creare un nuovo ordine economico mondiale. Ciò che, invece, successivamente è accaduto è stato un approfondimento della disuguaglianza distributiva tra i diversi Paesi e, all’interno di ognuno di essi, tra i diversi gruppi sociali.
Sulla base delle stime recenti sul livello del reddito e sulla disuguaglianza nei vari Paesi, sono state valutate, sia la “disuguaglianza tra i PIL pro capite dei singoli Paesi”, che quella relativa alla distribuzione mondiale del reddito a livello individuale. La disuguaglianza tra i PIL pro capite negli ultimi trent’anni del secolo scorso ha continuato a crescere rispetto agli anni precedenti, mentre la disuguaglianza nella distribuzione mondiale del reddito a livello individuale è risultata molto al di sopra della predente, risultando caratterizzata da una tendenza ad una crescita costante, salvo una lieve flessione nel 1988. In tutto l’arco dell’ultimo trentennio, l’approfondimento delle due diverse forme di disuguaglianza si è associato ad un rallentamento della crescita, con il risultato di una crisi economica globale, che ha colpito ampie fasce della popolazione, al di là e al di qua dell’Atlantico.
I grandi beneficiari di quanto avvenuto sono stati gli appartenenti ad un’estrema minoranza della popolazione mondiale e le nuove borghesie formatesi nelle economie emergenti, quali soprattutto quella cinese e quella indiana; la categoria produttiva maggiormente penalizzata è stata quella costituita dai contadini, in quanto su si essi si sono ripercosse negativamente le vicende che hanno caratterizzato gli accordi commerciali concernenti le produzioni del settore agricolo.
Piuttosto che rinunciare agli alti sussidi statali, negli USA e nella UE, gli interessi costituiti in ambito agricolo sono stati tali da determinare il fallimento, non solo dei negoziati commerciali del “development round” di Doha, ma anche di quelli più recenti riguardanti i trattati TPP (Trans-Pacific Partnership) e TTIP (Transatlantic Trade and Investment Partnership), che avevano rappresentato uno dei pilastri portanti della politica economica degli USA durante la presidenza di Barack Obama, ma definitivamente accantonati con l’avvento alla presidenza degli USA di Donald Trump.
La nuova Amministrazione americana ha congelato la prosecuzione delle trattative relative a questi due ultimi trattati, soprattutto per le temute ricadute occupazionali negative; secondo i suoi critici, il TPP, anziché stimolare l’occupazione interna, l’avrebbe scoraggiata con l’apertura delle importazioni agricole statunitensi dai mercati asiatici. Sempre secondo i critici, il TPP sarebbe valso a peggiorare la situazione, già di per sé critica, causata dal trattato NAFTA (North American Free Trade Agreement), stipulato nel 1992, aggravata dalla normalizzazione delle relazioni commerciali con la Cina, nel 2000, e culminata con l’accordo di libero scambio con la Corea del Sud nel 2012. Inoltre, sono stati anche evidenziati gli effetti negativi che il TPP avrebbe potuto avere sulla qualità dei prodotti venduti sul mercato statunitense e sulla normativa in materia di tutela ambientale. Molte di queste critiche hanno ricalcato quelle che in Europa sono state rivolte al TTIP.
Le critiche ad entrambi i trattati sono state connesse, negli USA e in Europa, al timore di dover affrontare, in uno spazio economico comune, concorrenti considerati avvantaggiati da minori vincoli normativi, nel campo della tutela del lavoro, come in quello della tutela del consumatore. La scarsa informazione intorno al contenuto dei negoziati ha contribuito a dare alle critiche una forte connotazione emotiva, per via del fatto che gli accordi sono stati portati avanti segretamente, e quindi è stato facile sostenere che la loro stipula avrebbe ulteriormente peggiorato le afflizioni esistenziali dei consumatori.
Sulle due sponde dell’Atlantico, all’affermazione dell’ideologia neoliberista, riguardo al rilancio dell’economia mondiale, hanno contribuito, oltre agli esponenti delle tradizionali forze della destra liberista, aperte alle posizioni maturate all’interno del sodalizio della Mont Pelerin Society, anche molti autorevoli esponenti della sinistra; questi, pur criticando la destra, perché portatrice di idee che sono all’origine di disuguaglianze distributive sempre più diffuse e approfondite, non sono riuscite a differenziare la proposta politica delle forze conservatrici dalla loro: Bill Clinton Negli USA, Tony Blair nel Regno Unito, Gerhard Schroeder in Germania, Romano Prodi, Giuliano Amato e Carlo Azeglio Ciampi in Italia, hanno tutti introdotto riforme istituzionali che le forze della destra per decenni avevano sempre tentato di introdurre.
Tutti questi leader sono stati i principali protagonisti della conformazione dell’impianto istituzionale dei loro Paesi alle esigenze imposte dal “turbocapitalismo” mondiale, alimentato dalla globalizzazione. Nel caso europeo, molti di questi protagonisti avevano naturalmente obiettivi diversi rispetto ai protagonisti della destra, ma erano differenze per lo più di dettaglio; così, ad esempio, le forze di sinistra, pur perseguendo obiettivi compatibili con la realizzazione di una maggior giustizia sociale, con la tutela dei diritti fondamentali della persona e con la salvaguardia dell’ambiente, non hanno però esitato a conferire il loro sostegno (a volte decisivo) per l’adozione delle politiche di liberalizzazione, deregolazione e riduzione della tassazione, in pro della globalizzazione. Ma questa convergenza politica delle forse di sinistra con quelle di destra non ha portato, come l’esperienza sta a dimostrare, vantaggi per le fasce sociali più svantaggiate, compromettendo l’ordine politico e sociale precedente e impedendo l’elaborazione di possibili progetti di futuro per i singoli sistemi economici integrati nell’economia mondiale. Il culmine di questo processo è stato raggiunto con la crisi aperta dalla Grande Recessione del 2007/2008.
Oggi proliferano le spiegazioni del perché la costruzione dell’ordine neoliberista, che aveva prefigurato e promesso vantaggi per tutti, non ha corrisposto alle attese, alterando il tradizionale equilibrio dei rapporti tra le principali parti sociali (sindacati, imprese e governo); in questa situazione, l’indebolimento delle capacità contrattuali dei sindacati ha prodotto una crescita della disoccupazione, indebolendo le decisioni politiche nell’azione di contrasto alla crescente influenza del potere economico dominante, e causando l’impossibilità, per il settore pubblico, di disporre delle entrate necessarie per far fronte all’aumentato bisogno di protezione sociale. In ultima analisi, l’alterazione dell’equilibrio nei rapporti tra le forze sociali e la finanziarizzazione dell’economia ha rallentato la crescita, facendo diminuire le entrate dello Stato ed aumentando l’insicurezza e la precarietà occupazionale della forza lavoro.
Le forze di sinistra si sono lasciate coinvolgere dalle proposte della destra neoliberista, nonostante che tali proposte incorporassero alcuni assunti da tempo dimostrati erronei dalla maggioranza degli economisti, delle cui critiche la sinistra inspiegabilmente non ha tenuto conto. Innanzitutto, essa non ha tenuto presente che tali proposte erano fondate sull’assunto che i mercati fossero competitivi e caratterizzati dal pieno impiego dei fattori produttivi (in particolare, della forza lavoro) e che, ove si fossero formate sparute sacche di disoccupati, l’intervento pubblico avrebbe potuto porvi facilmente rimedio. In secondo luogo, ha ritenuto, erroneamente, che la liberalizzazione del commercio internazionale non avrebbe dato luogo ad alcun problema, in quanto, come da tradizione, ha supposto che qualsiasi aumento delle importazioni sarebbe stato compensato da un automatico aumento delle esportazioni. In terzo luogo, ha considerato veritiera l’ipotesi che, partendo dalla presunzione che i mercati fossero efficienti e competitivi, ha sostenuto che un aumento delle esportazioni avrebbe concorso ad aumentare l’occupazione; e che, se anche fossero stati “distrutti” posti di lavoro, con una banca centrale orientata a garantire il pieno impiego e governi propensi a sorreggere la domanda finale, sarebbe stato possibile attuare una politica macroeconomica in grado di assicurare la stabilità di un equilibrato funzionamento del sistema economico.
Quanto è accaduto a partire dalla fine degli anni Ottanta del secolo scorso è stato esattamente l’opposto di quanto previsto dalle riforme neoliberiste: le diverse forme di disuguaglianza verificatesi a livello globale nella distribuzione dei vantaggi creati dalla globalizzazione, pur privilegiando gli establishment dei Paesi più avanzati sul piano economico, non ha reso questi ultimi esenti da profondi scompensi. Infatti, il loro equilibrio interno è stato per lo più compromesso dal manifestarsi al loro interno del fenomeno della disoccupazione strutturale irreversibile; ciò perché gli effetti dei traumatici cambiamenti subiti dalle strutture produttive dei Paesi economicamente più avanzati si sono manifestati in termini così accelerati, da non lasciare alle singole economie il tempo di adeguarvisi.
Nel lasciarsi coinvolgere dalle proposte neoliberiste, le forze della sinistra si sono rese corresponsabili della fine delle politiche di stabilizzazione che esse stesse avevano contribuito ad istituzionalizzare. Inoltre, il loro contributo all’approfondimento della globalizzazione le ha coinvolte nella responsabilità di aver causato la fine, o quanto meno l’affievolimento, della tradizionale politica sociale che i Paesi economicamente avanzati avevano adottato, soprattutto a partire dalla fine del secondo conflitto mondiale. La globalizzazione ha, infatti, decretato il venir meno del patto sociale stretto tra capitale e lavoro, che sottendeva il sistema welfaristico e che rendeva compatibile la dinamica del mercato del lavoro con il progresso tecnologico.
In futuro, se le élite politiche e il mondo produttivo (imprese e sindacati), non saranno in grado di correggere il modo di operare proprio della globalizzazione, esporranno le relazioni internazionali a generalizzate situazioni di crisi di natura politica, la cui soluzione sarà resa sempre più difficile dal proliferare, in tutti i Paesi in crisi, di formazioni politiche unicamente motivate da pulsioni nazionalistiche. Per tutte le ragioni esposte, la globalizzazione, al di là delle aspettative che originariamente aveva saputo suscitare, essendo andata fuori controllo (anche per l’irresponsabilità di alcuni politici a volte celebrati e onorati come “salvatori della Patria”), si è tradotta, perciò, almeno per le popolazioni dei molti Paesi economicamente avanzati, in una bruciante illusione.