Alghe

16 Gennaio 2020

AnthropOceano, opera di street art dipinta da Federico Massa – in arte Iena Cruz – su una parete di un palazzo in via Viotti 13 a Milano, nel quartiere Lambrate.

[Marinella Lörinczi]

Era calata la sera, ma nessuno di loro voleva ancora andarsene dal bar, ci si era affiatati nella chiacchiera ed alcuni di loro non avevano saputo di quest’altra tragedia, di cui si raccontava da giorni, a spizzichi e per allusioni, ai tavoli e sulle panchine della piazzetta. Ma conoscevano i genitori e ricordavano anche il bambinetto. Ora i due genitori non si vedevano più in giro. Era successo su una spiaggia esotica di una delle isole italiche.

In quel posto di mare, le correnti e i venti avevano accumulato sulla spiaggia una enorme quantità di alghe. Questo stava avvenendo regolarmente durante gli inverni degli ultimi anni. Infatti i villeggianti più anziani, i quali conoscevano quel pezzo di costa da quando era quasi disabitata, iniziavano la stagione maledicendo i porticcioli turistici che avevano fatto cambiare rotta, con le loro banchine di attracco, alle correnti costiere. Raccontavano, come si racconta in una favola, c’era una volta … come se mai fosse stato, che la spiaggia era stata di un inverosimile colore rosa antico, nella cui sabbia, quella della battigia continuamente rimescolata, si confondevano il corallo, le conchiglie e il granito rosa polverizzati dai millenni. Ora invece era ricoperta di dune mollicce d’alghe, spezzettate o addirittura ridotte a minuscoli peluzzi, stratificate, con la base resa scura dall’acqua che l’inzuppava, e indurita, quasi cementificata, dal peso degli strati superiori mischiati a sabbia. Le mareggiate invernali trattavano questi monticelli spugnosi come fossero effimere rocce, scagliandosi contro per corroderli, intaccandoli, modellandoli e creando così insenature, penisole, pareti a picco alte anche otto piedi, voragini, delle vere e proprie falesie attive in miniatura, dai bordi scivolosi e cedevoli, dove qualcuno era già ruzzolato giù malamente. Emanavano dal basso il caratteristico odore sulfureo delle alghe in decomposizione. Quasi intollerabile nelle giornate di canicola. “Le grigie scogliere di Dhovòdhdha” avevano inventato le male lingue istruite i cui proprietari godevano ancora e altrove di spiagge normali, sebbene anodine, di sabbia bianca o di ghiaino misto.

Davanti ai monticelli di alghe, a seconda dei venti e delle correnti, si poteva formare un’ampia e torbida e scura brodaglia di pezzettini persino invisibili di alghe, che intrappolava anche qualche sacchetto di plastica, maledetto!, e che si muoveva al rilento, come fosse di catrame, per il peso del densume vegetale in decomposizione, e che nascondeva completamente il fondale basso. Basso ma anche profondo a tratti, con buche, ma non si vedeva nulla per via delle le alghe galleggianti in una densa sospensione. Per raggiungere l’acqua limpida, bisognava attraversare questa barriera semiliquida, e quando se ne usciva, uno era ricoperto di quelle squame scure ed appiccicose ché sembrava un mostro marino. Anche questo era poi diventato un gioco per i bambini, ci si tuffava umani e si riemergeva pangolini. Quando l’acqua era limpida perché il maestrale aveva disperso verso il largo o aveva schiacciato verso il fondale le alghe frantumate e polverizzate, comparivano qualche volta, nelle giornate più affollate, vicino alla spiaggia, nell’acqua, le delfine.

Così le chiamavano, per derisione, quelli che sapevano nuotare. Giovani e graziose ragazze in bichini ridottissimi e con le chiappette bene in vista, che entravano delicate e con mossette finché l’acqua arrivava a mezza coscia, e allora si tuffavano ad arco, mettendo in mostra il cosiddetto lato bi, dalla vita in giù. Lo ripetevano un paio di volte, e ogni esibizione era seguita da una scossa vezzosa all’indietro data ai capelli bagnati, lunghi come voleva la moda diffusa dalle più o meno giovani arrampicatrici politiche e mediatiche. Le esibizioni da acquaparc attiravano gli sguardi, e ci si aspettava – finché non si è mangiata la foglia – che dopo questo riscaldamento seguisse una lunga nuotata a bracciate energiche. Macché, fatto questo altro non sapevano fare di sportivo, si immergevano fino al collo, agitavano un po’ le braccia alla stile libero con i piedi ben saldi sul fondale, ancora qualche salto, e poi emergevano dalle acque come veneri, coprendosi coi capelli, più o meno in stile rinascimentale.

“Questa è discriminazione positiva di genere, bell’e buona, miei cari. – interrompe una della brigata – Meglio così di quel che fa qualche maschio quando entra nell’acqua fino alla cintola, e poi persino controlla nel pantaloncino arancione o fosforescente, così nessuno lo nota, se la plìmplìm fuoriesce regolarmente, senza nemmeno curarsi di fingere una immersione totale fino al collo, così per sembrare che si rinfresca.”

Appartengono – continua e spiega il narratore, offeso, interrotto nel momento dotto e poetico con osservazioni volgari – a quelle femmine giovani della specie umana che se verso sera si posa e si avvicina qualche gabbiano più esperto e più intraprendente in cerca di resti di cibo, reagiscono con strillini acuti e scomposti di spavento, manco fossero condor.

I gabbiani volano via ridacchiando rauchi. Tanto la notte appartiene loro, come l’alto del cielo. Comunque sia, i frequentatori storici e anche coatti della spiaggia d’alghe, che avevano costruito la villetta quasi sulla spiaggia quando questo era ancora possibile, magari usando persino la sabbia marina per impastare il calcestruzzo, si erano abituati pian piano a conoscere e, anzi, ad apprezzare a modo loro, ne erano d’altronde costretti, le loro alghe. Fetide, come dicevano i vicini gongolanti. Morbide, come dicevano gli indigeni. Negli ultimi tempi era stato rigorosamente vietato, con un’ordinanza del comune, rimuovere i cumuli di alghe. Al massimo li si ammassava, se ne ammassava una parte, il tutto era impossibile, in un angolo, temporaneamente. L’inverno riportava tutto alla normalità. Era già un bel vantaggio che la spiaggia, abbracciata da una pineta diventata rigogliosa e brillante e che pian piano aveva nascosto le casette, modeste in verità, ospitasse pochi bagnanti. Quasi tutti del luogo, durante la settimana, i quali, per compensare l’inesistente mondanità delle loro vacanze, si consolavano frequentandosi e osservando una pulizia rigorosa della spiaggia e della pineta. “Sarebbe proprio da scemi aggiungere àliga ad alga” era la parola d’ordine bilingue. Avevano piantato per i forestieri anche un scritta globalizzata, incorniciata di emoji ora sorridenti ora corrucciati: “No trash, please!”

Uscendo dalla penombra della neopineta, per un breve tratto di sabbia pura si attraversava sui sentierini già tracciati un fitto insediamento di profumato pancrazio illirico, rigorosamente rispettato, al limite del quale i sandali o gli zoccoli venivano tolti affinché il piede nudo potesse poi valutare la consistenza variabile del suolo. Col tempo si era sviluppata in loro addirittura una caratteristica andatura tra il tranquillo e l’esitante che compensasse le inattese cedevolezze. Come succede coi marinai.

Nelle piccole doline, che separavano duna da duna, si godevano il sole standoci comodissimi anche durante le giornate di maestrale gelido, quando altrove era impossibile resistere. Queste conche avevano anche il pregio di essere molli molli, come un materasso, invitavano al sonno e ad altro (era risaputo) soprattutto nel tardo pomeriggio, quando il sole era al tramonto e affiorava la stanchezza. Verso sera, ma soprattutto nelle caldi notti estive, quando bambini genitori zii e nonni, nonché bambine genitrici zie e nonne, si facevano la doccia e si preparavano per la cena o per andar a nanna, comparivano ombre furtive che si sistemavano nelle doline. Di giorno si poteva mettere un segnale (un pezzo di costume da bagno su una canna), che significava: qua nudismo. Di notte, idem: qua nudismo, come se si fosse dimenticato lì per caso il segnale diurno. Se poi uno ne era infastidito, faceva un po’ di fracasso, fischiettava con insistenza, e le ombre se ne andavano quatte quatte nel buio delle dune di alghe, trascinandosi dietro l’asciugamano.

Ma quanto potevano essere infide alle volte! Le piccole depressioni si formavano spesso per i cedimento degli strati inferiori in parte trascinati via dall’acqua che si era insinuata fino nelle interiora e potevano succedere guai, crolli improvvisi, voragini che si aprivano. A volte ci si affondava soltanto, magari fino al ginocchio, ma la troppa morbidezza era sempre segno di pericolo, di buche che si potevano formare da un momento all’altro, e allora gli intenditori che avevano anche il compito di volontariato guarda-alghe, vi infilavano le famose canne con una bottiglia di plastica in cima, che brillava al sole, oppure con uno di quei serbatoi arancioni di plastica che i bambini perdono continuamente dal loro fucile ad acqua, oppure un semplice straccio colorato, per segnalare agli altri di stare attenti e di girare alla larga. Era infatti successo che qualche sfigato fosse sprofondato passando per le conche o saltandoci sopra come su di un divano, o saltando da bordo a bordo, così per divertirsi,  e ogni anno si verificavano distorsioni o slogature di caviglie e cadute ridicole, tra gli imprudenti o i nuovi arrivati troppo baldanzosi. I bambini piccoli erano stati istruiti a suon di sgridate e di qualche strattonata o anche con solenni esemplificazioni pedagogiche sul campo, completate con allusioni terrificanti al malfamato e solitario granchio mioci che afferra e trascina sotto lo strato di alghe galleggianti, di non andare da soli nelle conche, di considerarle come fossero sabbie mobili, per evitare queste fastidiose e repentine disgrazie. Non voglia il cielo che vi rimanessero seppelliti in quel melmoso composto di acqua, sabbia e alghe. Da qualche tempo alle alghe si aggiungevano fasci di canne invernali e spezzate, trasportate dalle correnti, che sbucavano dai mucchi taglienti ed appuntite, e che potevano provocare brutte ferite. Viso e occhi! Guai, mì …!

Le dune d’alghe erano però tutto un mondo da esplorare, irresistibile, c’era sempre qualcosa di interessante da trovare, soprattutto dopo le mareggiate, e i ragazzini ne rimanevano attratti. Venendo dal mare si potevano osservare le stratificazioni pluriennali, ondulate. Ogni annata d’alghe aveva una diversa sfumatura di grigio-bruno e così si misurava l’età della collinetta. I bordi che davano sul mare cambiavano lentamente di profilo, i golfi e le sporgenze si facevano e si disfacevano, dalle penisole si formavano piccole isole a torretta, piccoli faraglioni, che alla fine crollavano, mangiati dalle fondamenta. Le onde poi entravano anche dal disotto e con la loro tenacia scavavano alle volte tunnel che finivano in pozzetti formati da piccoli crolli, da dove usciva nelle giornate tranquille come un respiro umido e nelle giornate con mareggiate anche qualche spruzzo impertinente. Quasi ogni giorno nasceva da qualche parte un piccolissimo vulcano d’acqua e i bambini, strisciando di nascosto fino al minuscolo cratere dall’imboccatura bagnata e sdrucciolevole, ascoltavano il brontolio del mare che saliva dal buio salmastro.

In una caldissima giornata d’agosto – sabato o domenica era – arriva sulla spiaggia delle alghe di buonora una comitiva numerosa e petulante. Avevano lasciato le macchine lungo la strada principale. Grandi e piccoli invadono con tutte le loro mille cianfrusaglie una bella porzione di distesa d’alghe senza troppi riguardi per gli indigeni, che si muovono cauti sul suolo molleggiato e fonoassorbente. Un padre trascina una rete enorme, piena di giocattoli multicolori che poi nessun bambino toccherà. Gli altri piantano i loro ombrelloni, delimitano il loro territorio con teli e asciugamani e mandano a pascolo i bambini di tutte le età, tra gli sguardi un po’ stizziti e un po’ preoccupati dei locali. I ragazzini si mettono a correre e a saltare come sulla rete elastica, soprattutto ai limiti delle dune. Tutti vengono a sapere nomi e nomignoli, perché i decibel si sprecavano nelle grida di richiamo. Si viene involontariamente informati che sono venuti per curiosare, per vedere come era possibile trascorrere settimane intere su una spiaggia che non era spiaggia e stare a respirare quell’aria dall’odore strano. “Morbido, però!”, commentano ad alta voce camminando su e giù, ogni tanto scivolando sul bordo di qualche depressione – shit! – e si mettono a saggiare anche lo spessore dello strato, cercando di fare un buco con una paletta da sabbia. Questa però si rompe quasi subito e allora i grandi, già stufi di scavare, incaricano qualche ragazzetto, alquanto reticente, a proseguire per raggiungere la famosa sabbia rosata e magari l’acqua.

“Signori – uno dei bagnanti locali si avvicina con finta deferenza, poiché quelli davano spettacolo e gli altri si divertivano a loro spese – non è consigliabile fare dei buchi. Scusate se ve lo dico, ma noi conosciamo questi posti, può succedere che poi qualcuno ci scivola e si fa male.” Il ragazzino di turno si ferma subito per vedere se deve continuare o no. “Grazie – risponde il padre, emergendo dal giornale – ma non è mica la prima volta che i ragazzi fanno buchi nella sabbia, poi li ricopriamo, vedrà che non succede nulla. “ “Scusi se insisto – dice l’altro – ma vede, queste sono alghe, non sabbia, e soprattutto in quel punto, dove il bambino sta scavando, è molto morbido. Può esserci sotto una buca che non si vede ancora, e scavando tutto potrebbe franare e magari il bambino ci cade.”  “E’ chiaro che sono alghe, lo vedo e lo sento, eccome se si sente, ma non si preoccupi, tanto ci siamo noi a badarci. Scava, Gige’, scava, non bisogna essere fifoni nella vita, altrimenti non si combina mai nulla. Buongiorno e buon bagno!” – taglia corto. E riprende la cronaca sportiva, borbottando qualcosa a proposito di certi conigli di mare o al mare, non si capiva bene. L’altro lo guarda irritato, ma se ne sta zitto e se ne va.

Dopo un certo tempo il ragazzino si scoccia di stare a rimestare nelle alghe e pianta tutto. Rimane un buco non troppo profondo. Ci salta un paio di volte, non succede nulla, così se ne va. Scopre ai limiti della spiaggia una piccola insenatura circondata da un muretto di alghe, porta lì i suoi attrezzi multicolori da sabbia, li posa con metodo sulle alghe tutt’intorno come su una mensola, e si mette a costruire un castello di sabbia vicino all’acqua, del tutto nascosto dal muretto, come in una sua stanzetta privata. Dopo un certo tempo i genitori si accorgono che è scomparso. Non lo vedono. Chiedono in giro, e poi si devono mettere a chiamarlo ad alta voce, Gige’! Gige’! dove sei? … Lui-ggi, rispondi! fatti vedere! LUI-GGI! … Lui all’inizio non sente, poi fa finta di non sentire, poi sente odore di sgridata polifonica in pubblica piazza, emerge da sotto e dice con aria spavalda: sono qui, e dove potrei essere?  – Disgraziato! guai a te se non rispondi subito! ora ti tengo d’occhio! Lui sprofonda di nuovo a fare sul suo castello pinnacoli con la sabbia acquosa. Meglio e più rapido di Gaudì.  Scommetto che voi non sapreste farlo!

In seguito la mattinata trascorre tranquilla e senza problemi, tranquilla si fa per dire, dato che gli invasori erano dappertutto nonostante la canicola, come formiche, e non stavano zitti un attimo, selfi e fotografie a non finire, cioè a finire in feisbuc. Qualcuno di loro slitta giù casualmente dai bordi di una scogliera d’alghe, ma senza conseguenze, anzi questo incita tutti a lasciarsi andare fino nell’acqua come su degli scivoli, tra strilli e risate e frammenti di alghe secche che sciamano e che finiscono nell’acqua. Altri selfi e filmini. Che divertimento, ma chi l’avrebbe mai pensato? E poi un tuffo in mare, grandi e piccoli, per lavarsi e rinfrescarsi.

Scoprono che all’estremità della spiaggia una montagnuola d’alghe si appoggia a una roccia da dove ci si potrebbe tuffare nell’acqua se il fondale fosse sicuro. Per cui un papà, quello del giornale, si dirige con un largo sorriso verso Signor Coniglio che l’aveva messo in guardia a proposito delle buche scavate, ora sono amici, lo saluta con un cenno della mano e gli chiede se si poteva saltare giù da quella roccia. Sì, l’acqua è profonda circa due metri, il fondo è sabbioso e sicuro, non ci sono sassi, la parte alta della roccia è sporgente come un trampolino, ma comunque bisogna stare con gli occhi addosso ai bambini. Qualcuno è bene che stia sempre in acqua. E non fare tuffi troppo spericolati. Evviva, tutti a buttarsi, a risalire e a ributtarsi, in fila come in piscina. Strilli in più a non finire. Signor Coniglio quasi si pente delle sue generose informazioni.

All’ora di pranzo si lamentano ad alta voce di esser stanchissimi e morti di fame, di avere le gambe rotte per il troppo camminare su quel terreno elastico e a dislivelli. Che ginnastica per le gambe, eh, Maria? Gli indigeni, esasperati dagli ospiti e dall’aria sciroccosa, se ne vanno alle loro case, lasciando che la comitiva diventi padrona, al meno per un paio d’ore, dell’intera spiaggia.

Sotto alcuni ombrelloni raggruppati in un posto più riparato vengono aperte capienti borse termiche dai colori sgargianti e ceste di verdure e di frutta, anguria e quant’altro. Qualcuno aveva portato addirittura una teglia con pasta al forno, cucinata all’alba e ancora tiepida, che viene distribuita rapidamente su piatti di plastica e divorata insieme con del vino conservato al fresco. E poi si continua con il resto.

La digestione lenta del cibo sostanzioso assorbe le rimanenti energie. I bambini sopra i dieci anni bevono da bottiglie che sembrano di birra, invenzione dei fabbricanti di bevande gassate, così si stanno allenando con questo nuovo rito di passaggio verso l’adolescenza quando incominceranno bere della birra vera per essere accettati dalla banda. E poi lasceranno le bottiglie vuote dove capita, oramai questa è la norma adolescenziale.

Il silenzio del pasto è accompagnato dallo stridere pazzo delle cicale nella macchia delle colline oltre la strada. L’aria calda e umida diffonde il profumo intenso di una pianta verde verde a cespuglietto che cresce rigogliosa sui pendii aridi, dalle foglie ruvide e repellenti, tutt’al contrario del loro odore speziato. L’umidità accentua tutti gli odori, del cibo, delle alghe, delle piante, degli oli solari, dei deodoranti che più sudi più sei fresco/a, ronza intorno qualche moscone verdastro e svogliato, ma tutto si muove oramai al rilento. Si mastica più lentamente, il sole picchia forte, e si sta pensando a come schiacciare un pisolino, magari rifugiandosi sotto qualche pino. Piatti e bottiglie e contenitori per ora rimangono tutti sparpagliati intorno. Qualche tovagliolo di carta vola via, mai poi lo riacchiapperemo, promesso. Quella specie di scirocco comincia a smuovere anche le alghe depositate sul fondale e a spingerle verso la riva. Una striscia scura e densa si sta riformando, e ondeggia minacciosa.

Succede una cosa strana. Sopra il mare si alza una foschia sempre più fitta finché si forma, nel giro di una mezz’oretta, un banco di nebbia strisciante che ricopre tutto fino alla riva. Sotto, l’acqua scura e densa d’alghe.  L’orizzonte è coperto di foschia. Passa in lontananza una nave come se navigasse in cielo, come uno zeppelin. In quest’aria ovattata i suoni si smorzano, lo sciabordio del mare non si sente più. I grandi si stanno addormentando sulle sdraio e sui teli, e anche i bambini più grandicelli si calmano, si dedicano allo smartfon per videogiocare scambiandosi qualche parola o esclamazione alla voga, tipo shit. Un genitore ammonisce con voce sonnolenta ma solenne: non vi muovete di un centimetro, che se vi capita qualcosa ve le suono. Chi non ciatta o non gioca, con gli occhi fissi sullo schermo, senza più capire nulla intorno a sé, dormicchia. Da qualche telefonino si sente piano piano anche un po’ di musica non ritmata che si accorda con il lento e scuro ondeggiare del mare e quello lattiginoso del banco di nebbia a pelo d’acqua, in un amalgama biblico degli inizi. E le cicale si tacciono.

In quell’atmosfera ovattata e irreale nessuno percepisce un debole plop sordo. Passa inosservato. Come pure il piccolo esserino vispo che sgambetta e rotola sempre più lontano dagli altri, su e giù per i pendii, zitto per non farsi notare, confondendosi sempre di più con le alghe che gli si appiccicano addosso sul corpiccino unto di crema antisolare. Sparisce. Si dovrebbe udire un secondo plop, debole e sordo, più o meno dalla stessa direzione, ma nessuno lo sente. Ora il silenzio regna. La foschia va diradandosi. Si alza e poi scompare. Il mare scuro continua ad ondeggiare.

Ore più tardi, dopo le affannose ed inutili ricerche di tutti, dappertutto, i carabinieri sommozzatori, allertati dall’intera spiaggia disperata, ritrovano il corpiccino tutto graffiato che galleggia sotto la massa densa di alghe. Si stende il verbale e si compila il certificato di decesso. Causa: “Grave negligenza genitoriale.”

L’allegria era lentamente sfumata. La comitiva della piazzetta tace. Pagano il conto e senza nemmeno salutarsi, si disperdono. Ognuno è avvolto in un involucro invisibile di sconforto e di silenzio. Quei genitori non si sono mai più fatti rivedere nella piazzetta. Si saranno separati. Be-e-el bambi-i-ino / be-e-el bambi-i-ino / dov’è-è-è il mio /
be-e-el bambi-i-ino… no-o… no-o…

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