Fate l’amore non la guerra
16 Febbraio 2020[Guido Viale]
“Fate l’amore non la guerra”: un motto che aveva accompagnato molti di noi, quelli ormai entrati nella terza o quarta età, negli anni della nostra adolescenza e in quelli dell’ingresso nella lotta politica e nel ruolo sociale che ci eravamo scelto. La guerra contro cui ci battevamo era quella in Vietnam – allora, e ancora adesso, esempio di come una mobilitazione mondiale fosse riuscita a neutralizzare quello che già allora era il più potente esercito del mondo. Quanto all’amore, all You need is love! Quel motto non aveva soltanto legittimato la “rivoluzione sessuale” degli anni ’60, cioè la liberazione dai tabù che assillavano i nostri genitori, che su di essi avevano costruito o validato codici che facevano della famiglia tradizionale il fondamento di tutta l’edificio gerarchico della società. Era stata anche la scoperta di un amore più largo, che andava al di là delle coppie più o meno temporanee che da allora si sarebbero formate e sciolte con una certa frequenza; la scoperta dei legami liberamente costituiti che formano una comunità nell’unità di intenti che ci accomunava nelle lotte: prima all’Università e nelle scuole, poi nell’incontro cercato e non sempre riuscito con gli operai delle fabbriche, poi nei “quartieri”, o territori, in cui molti si sarebbero accampati e persino nella prima fase della formazione dei “gruppi”, la cui rivalità avrebbe poi finito per introdurre anche tra noi il veleno della competizione. Ma non c’è dubbio che senza quel “fate l’amore”, che era anche, e in misura non secondaria, incontro sessuale, la nostra storia, e quella di un’intera generazione, avrebbe preso un’altra strada.
Queste riflessioni tornano in mente leggendo che Tobias Rathjen, il razzista di Hanau che ha ucciso 11 persone nella sua guerra personale (che personale non è) contro gli “stranieri” che non si possono più espellere, e che quindi vano eliminati – come da lui stesso dichiarato in un video-testamento – non aveva più rapporti con una donna da 18 anni; e, si può immaginare, neanche con un uomo (una situazione analoga credo sia stata vissuta da Anders Brevik, lo stragista razzista svedese, o da Brenton Tarrant, suo emulo in Australia). Per questo – forse soprattutto per questo – Tobias Rathjen si era votato alla guerra contro gli stranieri. Violenza, guerra, razzismo e maschilismo qui si intrecciano con evidenza: i “rapporti con una donna” che Tobias Rathjen non aveva più, o non ha mai avuto, non sono quelli che nascono da una libera scelta che accompagna il “fare l’amore”; in uno come lui sarebbero stati comunque improntati a feroce volontà di dominio e a violenza di genere: quella stessa che oggi spinge tanti maschi “privati”, dalla sua libera scelta, del rapporto con la loro partner, a sopprimere. Maschilismo, razzismo, odio e violenza si intrecciano nella comune rivendicazione del possesso: il possesso di una donna, un “principio” che la cultura femminista, dove ha operato, ha dissolto o sta dissolvendo; e il possesso di una “patria”, di una terra di elezione, di una identità etnica fasulla, che fanno dire a molti “questa è casa mia”; e che la presenza di tanti stranieri e l’afflusso di nuovi profughi mettono in discussione, spingendo verso posizioni politiche e pratiche escludenti che sfociano in razzismo e a volte culminano in scelte stragiste.
Per anni il femminismo ha cercato di insegnare ai maschi, con alterno successo, l’educazione dei sentimenti e la cura dei rapporti personali; ma da tempo ha ormai dispiegato, per chi si è messo in ascolto, la potenza di una critica del patriarcato, cioè del possesso (in termini giuridici, proprietà: “il terribile diritto” per Cesare Beccaria e Stefano Rodotà). Possesso innanzitutto di una donna – o di molte donne – e dominio sulla loro prerogativa di generare la vita; ma, su questo modello, possesso e dominio di tutto ciò che esiste: dei figli, della casa, del suolo, del vivente, dell’ambiente, della Terra. Femminismo ed ecologia, rigetto del patriarcato e rifiuto dell’incuria per l’ambiente in cui viviamo si sono così saldati in una “cultura” che ci ha costretto a rivedere molti degli schemi a cui ci eravamo affidati e che oggi rappresenta la parte più viva delle prospettive di rinnovamento a nostra disposizione: l’unica in grado di affrontare alla radice il compito immane della conversione ecologica che la crisi climatica e ambientale ci impone. Ma è una cultura che si radica nella ricomposizione di un rapporto paritario e condiviso tra uomo e donna; quel rapporto che, come già notava Marx, è l’epitome di tutti i rapporti sociali che attraversano società e storia.
Il fondamentalismo islamista sfociato nel terrorismo ha reso evidente con le sue efferatezze come la vera posta in gioco di quella sua violenza sia la riconquista del potere dell’uomo sulla donna, messo in forse dal diffondersi del femminismo o dalla minaccia della sua diffusione. Ma anche nelle nostre culture, dove l’aspirazione al dominio nei rapporti di genere assume spesso le vesti della pornografia e del marketing pubblicitario piuttosto che quello di un controllo diretto, gli ingredienti che legano violenza e maschilismo si ritrovano tutti. E se la sconfitta del terrorismo islamista non può che passare attraverso una grande rivolta delle donne di cultura islamica, altrettanto succede da noi, dove solo il sostegno e la partecipazione al processo di dissoluzione delle radici più profonde del patriarcato potrà mettere in grado tutti, uomini e donne, di venire a capo delle dilaganti pulsioni razziste.
[Pubblicato oggi dall’Agenzia Pressenza]