Terra murata
3 Marzo 2010Alice Sassu
Un’altro drammatico resoconto dalla Palestina per il Manifesto Sardo e i suoi lettori.
Il finimondo. Pioggia, diluvio, da giorni il caldo è passato e le acque sono sempre più agitate. Israele alza la tensione, sempre più, senza pudore, e i media occidentali tacciono, come sempre. I villaggi e le città si mobilitano, manifestano, i palestinesi cercano di sentirsi vivi, urlano il proprio dissenso, e la repressione si fa pesante.
Venerdì 19 febbraio, il villaggio di Bil’in festeggia l’anniversario della nascita del comitato popolare contro la sottrazione delle terre. I due terzi della terra dovevano essere annessi all’interno del muro di Apartheid e alimentare così il suolo degli insediamenti israeliani adiacenti. Cinque anni fa, il comitato iniziava la lunga lotta che avrebbe portato il caso fino alla Corte Costituzionale israeliana. Questo mese sono iniziati i lavori per la restituzione di una metà delle terre sottratte, ma le proteste del comitato continuano.
C’erano circa 5000 manifestanti, tra palestinesi, internazionali, gruppi israeliani contro l’occupazione. Sul palco intervengono diversi esponenti del legislativo palestinese, e cittadini del comitato locale ricordano con rabbia e dolore la morte di Bassen, ucciso l’anno scorso da un candelotto di gas lacrimogeno che gli ha perforato il torace. Ma si ricordano anche i numerosi arresti di massa. Canti, clown e tamburi scandiscono il ritmo del corteo che si dirige verso la base militare che accerchia le terre sottratte.
Ci sono famiglie intere che manifestano, bambini e adulti, le loro mascherine che coprono bocche e nasi preannunciano una lotta fino all’ultimo respiro. Si cerca di oltrepassare la barriera metallica armati di bandiere. La risposta militare è devastante. Gas lacrimogeno, granate assordanti, idranti che spruzzano skunk gas, un liquido nauseabondo, un acido chimico che brucia la pelle. La folla si disperde, le ambulanze cercano di divincolarsi tra la gente per giungere in aiuto di chi non ce la fa, di chi l’aria non riesce a trovarla. Anche documentare è impossibile. Il paesaggio intorno è un cupo e tetro ambiente infernale, spuntano visi spettrali, ed esseri dell’altro mondo con maschere antigas sono le uniche figure che animano ancora la scena.
Ad un certo punto trovarsi su di una collina insieme a bambini palestinesi che imparano a resistere, è come vivere un film. Anche loro cercano aria, e osservano, scrutano ciò che accade: “My land” dice uno di loro e indica oltre la barriera metallica. Giungono anche dalla nostra parte i lacrimogeni e lo skunk gas, i militari israeliani non guardano in faccia nessuno, davvero nessuno.
Domenica 21 febbraio. Il primo ministro Netanyahu ha definito “patrimonio nazionale” israeliano alcuni siti palestinesi tra cui la Moschea di Ibrahim a Hebron, già controllata per il 75% da Israele, e la Tomba di Rachele a Betlemme.
Martedì 23 febbraio. In segno di protesta si dichiara lo sciopero generale nella città di Hebron. Mercoledì 24 febbraio. In segno di protesta si dichiara lo sciopero generale nella città di Betlemme. Giovedì 25 febbraio. Ad Hebron si manifesta contro la chiusura della via Ash-Shuhada nel centro della città. Le ragioni della chiusura sono legate alla presenza di circa 600 coloni israeliani che occupano la zona centrale della città. La manifestazione si svolge pacificamente di fronte ad un cimitero che dà sulla via, sbarrata e controllata dai militari israeliani. I manifestanti vengono caricati e una serie di lanci di lacrimogeni ne disperdono un buon numero e feriscono alcuni.
La zona denominata Ghost City è completamente disabitata, si intravedono solo militari armati che pattugliano ogni giorno e le botteghe, che un tempo erano dei commercianti palestinesi, ora sono chiuse. Marchiano il territorio una miriade di stelle di David nelle pareti. Da giorni nella città si registrano continui scontri tra la popolazione locale e i militari israeliani. Si resiste per le case e le attività sottratte, per le violenze di ogni giorno, per le restrizioni nella mobilità, e per la difesa della Moschea di Ibrahim, ora ancor di più minacciata dalle ultime dichiarazioni di Netanyahu.
Domenica 28 febbraio. Beit Sahour. Area C, zona sottratta ai contadini, terre che non posso essere coltivate, zona militarizzata. Si manifesta, come ogni domenica, e questa volta presenzia anche Mustafā Barghūthī, leader della lista Palestina Indipendente. In poco tempo, sirene a tutto spiano preannunciano l’arrivo dei militari israeliani. Danno pochi minuti di tempo, e sotto la pioggia violenta iniziano gli scontri, l’inferno.
Gas, bombe suono, pallottole di gomma che giungono ad una velocità disarmante, i militari circondano la zona, si muovono rapidamente, non si ha via di fuga. Ci sono ragazzi, ragazze, uomini e donne, si fugge. Alcuni di loro colti dalla rabbia lanciano qualche pietra, e si corre, perché le pallottole sono tante, come la paura. Un ragazzo mostra in mano uno dei proiettili, è grande e grosso, ma ha anche un altro proiettile nella sua mano, forse un altro proiettile di gomma o forse no. Non so riconoscerlo. Neanche lui, ma noi non ci intendiamo di armi.
Grandine e pioggia ci accompagnano verso la fuga, sì perché le acque sono molto agitate, sono sempre più agitate in Palestina.