I “fatti di Sassari”. Una lezione lunga venti anni e un giorno

1 Maggio 2020

(Disegno di Martina Di Gennaro, napolimonitor.it)

[Dario Stefano Dell’Aquila]

Il 3 aprile del 2000 nel carcere di San Sebastiano di Sassari era previsto un trasferimento di detenuti, in seguito alle proteste che nei giorni precedenti avevano infranto la vita quieta dell’istituto. Da qualche settimana, infatti, i detenuti protestavano per l’assenza d’acqua, le celle fatiscenti, la sporcizia. Una protesta rumorosa ma simbolica, la classica “battitura”, pentole e coperchi battuti a ripetizione sulle sbarre delle finestre.

Una delegazione di parlamentari, per dare ascolto a quelle voci, si era recata in visita ispettiva nell’istituto. Preoccupato per gli sviluppi della situazione, Giuseppe Della Vecchia, provveditore regionale degli istituti di pena, propose ai vertici dell’amministrazione penitenziaria un nuovo comandante degli agenti di custodia e il trasferimento di una ventina di detenuti. Così, ottenuto il via libera per entrambe le richieste, il 3 aprile il nuovo comandante in pectore Ettore Tomassi, giovane ma già con esperienza, formatosi nel carcere napoletano di Poggioreale, guidò un centinaio di agenti in quella che doveva essere, sulla carta, un’operazione di routine.

Qualcosa, però non andò come doveva, se qualche giorno dopo il pubblico ministero Gianni Caria si ritrovò tra le mani la denuncia dei familiari di quei detenuti e a avviò un’indagine che avrebbe riguardato ben novantacinque tra agenti e personale dell’amministrazione penitenziaria. Una settimana dopo, “i fatti di Sassari” erano sulle prime pagine di tutti i quotidiani nazionali.

Cosa era accaduto? Tra le tante testimonianze di quella che fu definita la “galleria degli orrori”, ecco cosa scriveva il deputato Giuliano Pisapia in una interrogazione parlamentare di quei giorni: “Secondo quanto riportato dal quotidiano La Nuova Sardegna dell’11 aprile 2000 e secondo quanto riferito all’interrogante dai parenti di alcuni detenuti del carcere di San Sebastiano a Sassari, questi ultimi sono stati vittime di gravi atti di violenza commessi da appartenenti alla polizia penitenziaria nel corso di un’operazione di trasferimento; in particolare, essi sono stati costretti a denudarsi, ammanettati con le mani dietro la schiena, trascinati nei corridoi, colpiti brutalmente con calci e pugni alla schiena, alle gambe e ai testicoli, sollevati in aria – sempre nudi e ammanettati – e ‘lanciati’ da un agente all’altro; ai familiari dei detenuti è stato impedito per diversi giorni di incontrare i propri congiunti”.

Pisapia riportava le parole riferitegli dai familiari, secondo i quali il nuovo comandante “si sarebbe presentato ai detenuti con le seguenti parole: ‘Io sono il vostro Dio, qui in quindici giorni diventerete come agnellini. Sappiate che il lager è un paradiso, qui inizia l’inferno'”.

L’allora ministro di grazia e giustizia Oliviero Diliberto, negli ultimi scampoli di vita del governo D’Alema (qualche settimana dopo, con Giuliano Amato presidente, il ministero di via Arenula andò a Piero Fassino), che aveva speso il suo mandato investendo risorse ed energie sulla polizia penitenziaria, e Gian Carlo Caselli, allora capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, disposero la sospensione e poi il trasferimento del provveditore, della direttrice del carcere Maria Cristina Di Marzio e del comandante degli agenti.

Nel mentre, come tesi difensiva il provveditore e la direttrice dell’istituto, presenti il giorno del trasferimento, dichiararono di non essersi accorti di nulla, mentre il comandante ribadiva la correttezza dell’operato dei suoi uomini, riconducendo il tutto a qualche tensione dovuta alla estrema criticità della situazione. Di differente opinione, l’accusa. Secondo la procura l’intera operazione era nata con la precisa intenzione di dare un “segnale di cambiamento” ai detenuti, dopo le proteste dei giorni precedenti. Per una serie di rare coincidenze, “i fatti di Sassari” superarono i confini delle testate locali e furono l’occasione per parlare della “questione penitenziaria” come non accadeva da molti anni, andando anche oltre il singolo episodio di cronaca.

Venne così alla luce una storia che in realtà era nota a tutti quelli che del carcere avevano un po’ di esperienza: l’esistenza delle “squadrette”, gruppi di agenti scelti chiamati a intervenire per riportare l’ordine nelle situazioni di criticità. Un ordine non sempre riportato con guanti bianchi e cortesie per gli ospiti, interventi che sfuggivano a ogni formalizzazione, ma non per questo arbitrari o casuali. Disposizioni date con poche righe burocratiche, dietro le quali si nascondeva una catena gerarchica che non arrivava mai agli anelli di vertice. Se qualcosa trapelava, tra vertici e autorità politica, era sempre un fiorire di punti interrogativi, silenzi e sorprese.

Eppure, come ricordò Alessandro Margara, che guidò il Dap durante una breve stagione riformista, “i fatti accaduti nella prigione di Pianosa erano stati voluti o quanto meno tollerati dal governo in carica. In particolare, i trasferimenti erano effettuati secondo modalità volte a intimorire i detenuti stessi. La famigerata sezione Agrippa era stata gestita ricorrendo ad agenti venuti da altre regioni (ossia reparti speciali) che disponevano di carta bianca. Il tutto corrispondeva a un preciso disegno”. Finita quella triste stagione critica ed emergenziale, quei reparti speciali assunsero denominazioni e sigle ufficiali e pubbliche, tra le ultime quella dello Scop.

Si venne a sapere, dal dibattito sulla stampa sviluppatosi dopo Sassari, che nel 1999 erano stati istituiti un ufficio speciale dell’amministrazione penitenziaria, l’Ugap – struttura di intelligence creata per vigilare sulla “sicurezza degli istituti penitenziari” – e il reparto operativo dei Gom (Gruppi operativi mobili), dotato di circa seicento uomini guidati da un generale di brigata alle dirette dipendenze del capo del Dipartimento, “il quale – si legge sulla pagina ufficiale del ministero di giustizia – può disporne direttamente l’impiego per fronteggiare situazioni di emergenza e particolare pericolo”.

Nell’aprile del 2000, pochi erano a conoscenza dell’esistenza di questo reparto, che fu affidato alla guida del generale Enrico Ragosa. La stessa Commissione giustizia della Camera dei deputati non sembrava fosse stata neppure informata della cosa. Nel luglio del 2001, per il G8 di Genova, i Gom furono chiamati a gestire la caserma di Bolzaneto dove giungevano alcuni dei manifestanti fermati e il risultato, in termini di immagine pubblica, non fu tra i migliori. Oggi Il Gom ha sede in Roma e si articola in dodici reparti operativi presenti presso altrettanti istituti penitenziari.

Intanto, “i fatti di Sassari” portano all’attenzione dell’opinione pubblica dinamiche e poteri fino ad allora sconosciuti a chi non fosse del “settore”, si affacciano sulla scena politica i sindacati autonomi di polizia penitenziaria, tra cui il potente sindacato Sappe, deciso a difendere a oltranza gli agenti di Sassari senza cedere terreno nemmeno sul piano lessicale, anzi utilizzando un linguaggio crudo, espressione di una forza verbale che non ammette incertezze.

Il sindacato, pur di fronte a una certa evidenza, nega i fatti stessi perché non sono questi il discrimine tra ciò che è giusto o ciò che è sbagliato. La scelta deve essere di campo, solo dopo viene la verità. Chi critica gli abusi o dubita del comportamento degli agenti è di fatto un nemico dello stato o un amico della criminalità o magari entrambe le cose. Così, organizzano una manifestazione nazionale dinnanzi al carcere napoletano di Poggioreale, dove si sono formati i protagonisti di Sassari e dove migliaia di agenti hanno fatto formazione sul campo. Quella manifestazione fa nascere sulla scena pubblica un nuovo soggetto politico.

Gli agenti di polizia penitenziaria solo dal 1990 erano stati de-militarizzati e quindi avevano potuto organizzarsi sindacalmente. Forte di una compattezza e una radicalità rara nel mondo sindacale, i sindacati autonomi non stringono alleanza solo con le forze politiche del centro-destra, ma sapranno allearsi culturalmente anche con forze politiche diverse, dimostrando di essere il potere più forte e organizzato del sistema penitenziario, capace di costruire un discorso egemone sul carcere fondato su due semplici assiomi: più agenti, più carceri. Nel corso degli anni, seppure sul piano istituzionale siano nate figure importanti come il Garante nazionale per le persone prive della libertà e quelle dei garanti regionali, il discorso pubblico sul carcere si è mosso più lungo questi assiomi che ispirato a un’idea della esecuzione della pena rispettosa dei diritti fondamentali della persona e dei principi costituzionali.

Ma siamo andati troppo avanti, forse. Torniamo ai fatti. Come sempre, superata la prima fase di burrasca, il processo per le violenze e i pestaggi di Sassari proseguì sgretolandosi strada facendo. In primo luogo si sgretolò sul piano mediatico, perché il processo fu seguito solo dai due principali quotidiani locali. Poi cominciò a perdere pezzi lungo il rito processuale.

La tesi dell’accusa non fu accolta, il giudice decise che ogni singolo episodio di violenza andava esaminato a sé e non come parte di un unico disegno. Questa scelta, di valutare separatamente singoli fatti, in luogo di una lettura sistemica, affievolì ogni speranza che si facesse almeno chiarezza sulla catena di comando e sulle dinamiche che ne avevano segnato lo sviluppo. Alcuni degli imputati scelsero il rito abbreviato, altri agenti quello ordinario.

Il provveditore Della Vecchia fu condannato in appello a un anno e quattro mesi, la direttrice a dieci mesi, il comandante degli agenti a un anno e quattro mesi. Nessuno fu sospeso dai pubblici uffici, di fatto tutti hanno continuato la loro carriera nell’amministrazione. Il provveditore fu mandato a dirigere la Scuola di formazione della polizia penitenziaria, l’allora direttrice al andò ministero di giustizia, il comandante a dirigere un istituto di un carcere del centro-sud.

Altri sessantaquattro imputati furono assolti. Nel 2010, intervenne la prescrizione per gli agenti che avevano scelto il rito ordinario. Come riporta Daniela Scano, de La Nuova Sardegna, nella sentenza in cui applicò la prescrizione il giudice Massimo Zaniboni, del Tribunale di Sassari, scrisse “quel giorno nella casa circondariale di Sassari si passò da un luogo di detenzione legale, dove la libertà è privata a seguito di precise regole, anche costituzionali, a luogo dove la legalità cedette il passo alle manifestazioni di istinti, di rancori repressi, di spirito di rivalsa, di volontà di manifestare la propria durezza al nuovo comandante”. Parole dure, ma prive di qualunque conseguenza giuridica.

Per non avere soddisfatto il requisito di un’indagine approfondita ed efficace, nel 2014 la Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato l’Italia a un risarcimento di 14 mila euro riconoscendo le violenze subite da uno di quei detenuti, Valentino Saba. Di lì a pochi anni, nel 2017, è stato finalmente introdotto il reato di tortura nel nostro ordinamento.

Eppure, l’equilibrio dei poteri all’interno del sistema penitenziario, non è determinato dalla norma nel suo astratto, ma dalla capacità che le forze sociali e politiche hanno di affermare i propri discorsi, come insegna la storia recente di questi giorni del carcere di Santa Maria Capua Vetere.

Qui, a fronte delle accuse di violenze sui reclusi su cui la magistratura ha aperto una inchiesta, c’è stata l’immediata reazione di alcuni sindacati autonomi di polizia penitenziaria che hanno replicato alle segnalazioni del Garante nazionale e di quello regionale attaccandoli senza mezzi termini, parlando di un “piano di destabilizzazione contro il sistema carcerario e la polizia penitenziaria” e richiedendo misure per chiudere le carceri a ogni sguardo esterno. Sono passati vent’anni dai fatti di Sassari, ma, a volte, è come se fosse ieri.

Da napolimonitor.it

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