Cosa può l’arte di fronte all’occupazione? Diario di Ordinaria tristezza di Mahmoud Darwish
10 Agosto 2020[Omar Suboh]
L’anno in cui Mahmoud Darwish pubblica Diario di ordinaria tristezza è il 1973, ha trent’anni e ha già pubblicato cinque raccolte di poesie. Si chiude la fase chiamata «rivoluzionaria e patriottica», inaugurata nel 1964 con la celebre poesia Carta d’identità, poesia che lo consacrerà tra i maggiori poeti arabi contemporanei e una delle voci più significative della cultura palestinese.
Le sue opere sono caratterizzate da un «linguaggio in continua trasformazione stilistica e formale», impregnate di nostalgia, del desiderio di una patria. Il Diario è una opera in prosa oggi contenuta nella edizione italiana pubblicata da Feltrinelli, Una trilogia palestinese.
Racconta e rievoca tutti i principali avvenimenti che lo hanno reso un presente assente, come la legge e la propaganda israeliana ha trasformato i palestinesi, stranieri nella propria terra. Una narrazione densa, piena di dolore e rabbia per una condizione imposta con la violenza delle armi e il pretesto di un risarcimento da parte della comunità internazionale per quanto avvenuto durante la seconda guerra mondiale. La letteratura diventa lo strumento per rivendicare una esistenza rubata, contro l’oblio della memoria che vorrebbe imporre un racconto unico in cui i palestinesi sono cancellati: «Ora, dopo la confisca, la terra per lui aveva assunto, da un lato, il significato di fonte e miseria e, dall’altro, quello di garanzia della dignità nazionale e personale». L’effetto principale del monopolio delle armi, dell’informazione, dell’istruzione e dei programmi universitari ha di fatto eliminato la Storia per il popolo di quella terra: «quanto più la storia si allontana, tanto più la menzogna diventa innocua e innocente», e oggi, più che mai questa unica Menzogna è diventata l’unico imperativo a cui conformarsi nella narrazione dominante.
«Perché giri sempre per il mondo?»
«Non sono io a girare sempre per il mondo, è il mondo che viene da me e mi mette sotto assedio». Versi come questo rievocano immediatamente la nakba, la catastrofe per i palestinesi che coincide con l’istituzione dello stato di Israele e, oltre alle svariate vittime, la diaspora per quasi un milione di profughi. Il Diario è un condensato di rabbia e volontà di reagire con ogni mezzo necessario, di opporsi al proprio «annullamento che comincia dal modo in cui tu eserciti la tua esistenza», e se questa viene esercitata contro quella di qualcun altro non può che andare in contro a una lotta, al conflitto: «Vogliono impadronirsi anche del tuo senso di appartenenza per diventare la realtà tra te e la patria».
Nella splendida prosa asciutta e diretta di Darwish c’è anche spazio per inserti saggistici tratti da fonti ebraiche che mettono l’accento sul rovesciamento dei rapporti tra le due componenti in opposizione, dialettica che rimanda alla memoria quella hegeliana del servo-padrone, come quando cita l’intellettuale ebreo Ahad Ha’- am: «E che cosa fanno i nostri fratelli in ‘Eres Yisra’el’ Proprio il contrario! Da schiavi nelle terre della diaspora tutt’un tratto si sono trovati con una libertà sconfinata e sfrenata […]. Questo cambiamento repentino ha alimentato in loro le tendenze al dispotismo come sempre succede ‘allo schiavo che regna’: si comportano infatti con gli arabi con ostilità e crudeltà, invadono ingiustamente il campo altrui, li umiliano senza alcun motivo plausibile e per di più si vantano delle proprie azioni senza che nessuno intervenga per far cessare una tendenza così vergognosa e pericolosa».
La vera sfida che viene a delinearsi è la seguente: può l’arte sfidare il cambiamento spazio-temporale e l’oblio della storia, ricostruendo una mappatura topografica del territorio palestinese? Tutta la produzione letteraria palestinese è connotata dalla volontà di legittimazione identitaria e di identificazione territoriale, oltre che di ricerca di senso futuro: il suo ruolo, possiamo dire, è quello di una contro narrazione sulla quale poter basare le proprie aspirazioni e fondare una memoria che tenga in vita il popolo a dispetto di morte e distruzione quotidiana.
La scissione provocata nel popolo palestinese per Darwish deriva dal senso di dislocazione geografica: il poeta nazionale infatti era originario di un villaggio dell’Alta Galilea, Al-Birwa nel 1942, oggi raso al suolo. Su quel territorio Israele fonderà gli insediamenti di kibbutz Yas’ur e Moshav Ahihud, costringendo lui e la famiglia ad emigrare in Libano, con annessa perdita di ogni diritto di proprietà al loro ritorno in Palestina (in virtù della legge sui «presenti-assenti»). In tutta la poetica palestinese ricorrono alcuni elementi simbolici pregnanti, segni di radicamento e di appartenenza alla terra: la letteratura della nakba risuscita il precedente paesaggio, demolito dalla guerra e dalle campagne di forestazione sionista ricollegata al mito ebraico del ritorno/venuta degli ebrei a Sion.
L’esigenza di affermare la propria esistenza si colloca all’interno di una poetica dello spazio, per citare Bachelard, infatti attraverso la narrazione, gli autori, rispondono all’esigenza di recuperare attraverso il ricordo poetico i luoghi cancellati dalle mappe geografiche. La letteratura risponde in questo modo alla possibilità di rievocare i luoghi cancellati per farli rinascere e rivivere attraverso una poetica dello spazio, in particolare per i palestinesi «mai fissi in un luogo», come scritto dallo stesso Darwish, ma soprattutto perché «l’unico valore di chi vive sotto occupazione è il grado di resistenza all’occupante», e quale modo migliore dell’arte, della poesia e della narrativa può rispondere a questa esigenza?