La taranta della vita, di Amedeo Spagnuolo
1 Ottobre 2020[Gianfranco Meloni]
L’arte sfugge alle categorie e alle etichette, di cui l’intelligenza umana ha, tuttavia, un’incolmabile sete, nascente dall’horror vacui e dal bisogno di trovare una collocazione razionale per tutto.
La taranta della vita di Amedeo Spagnuolo sfugge a ogni etichetta che il lettore sarà portato legittimamente a conferirle: romanzo di formazione, saga familiare, romanzo antropologico, sia perché è tutte queste cose, e altre, insieme, sia, soprattutto, perché esprime qualcosa di eccedente i generi e le categorie, proponendo una rappresentazione immediata dei conflitti e degli ossimori dell’esistenza, che trovano una sintesi nell’intreccio narrativo avvincente e nei profondi profili psicologici dei personaggi.
È una famiglia, certamente, con il suo carico tolstoiano di infelicità singolare e di sete di resurrezione, il cuore della narrazione. Una certa sensibilità russa, di matrice cinematografica, la troviamo anche nello stile espositivo, privo di dialoghi e in cui il narratore, dall’esterno, offre lo spettacolo di un unico piano sequenza alla Sokurov, con la sensibilità empatica di un antropologo ingaggiato nella sua appassionata osservazione partecipante.
Le vicende dei clan Cuciniello e Nardone sono narrate a partire dai differenti punti di vista dei membri, tra cui spicca esteriormente la figura maschile centrale del romanzo, Carmine, ma dominate, sotterraneamente, dalle figure femminili della madre Clara, della moglie Clementina, dell’amante Donna Giulia, delle figlie, Cinzia e Loredana, della maestra Rizzoli .
Femminile è anche un libro che compare nel romanzo, cruciale per l’emancipazione, purtroppo incompiuta, di Clementina, le Leggende napoletane di Matilde Serao, la prima giornalista direttrice di testata in Italia.
Tutti i personaggi maschili e femminili, ad ogni modo, si presentano al lettore dietro la lente antropologica del narratore, che trova, forse, il suo culmine descrittivo nell’affresco centrale delle domeniche irpine, trascorse da tutti nella casa tradizionale, con i suoi edifici affacciati all’aia centrale, dedicate alla celebrazione del rito laico della famiglia estesa, vista, a un tempo, nel suo ambivalente volto di prigione tradizionalista e asfissiante e di nucleo sociale comunitario, luogo di recupero di una vita alienata.
Queste drammatiche contraddizioni, che conferiscono al romanzo una tonalità demartinianamente apocalittica, sono, peraltro, enunciate già nel titolo dell’opera, La taranta della vita, la danza sfrenata che cerca nell’abbandono dionisiaco la catarsi dal dolore tragico della vita. La taranta è l’arte e il libro stesso.
È la Madre, l’anziana, austera e violenta Clara, che, abbandonandosi alla danza sfrenata del Sud, tanto studiata da De Martino, destando meraviglia agli occhi di figlie e nipoti, concepisce, per tutte le donne del suo clan, l’inquietante profezia che tutte loro prima o poi si sarebbero trasformate in qualcosa d’altro, in entità votate all’infelicità, mentre il loro spirito più autentico sarebbe stato ricoperto lentamente da uno spesso strato di noia e disillusione.
Tra i personaggi maschili, accanto a Carmine, troviamo il suo figlio maschio, Alessandro, l’inquieto, possibile alter ego del narratore. Il carattere introverso di Alessandro lo porta a sviluppare un tratto di narcisismo autodistruttivo che consiste nell’esagerare, fino all’angoscia, il timore di non corrispondere alle aspettative degli altri e che, tuttavia, sarà superato grazie alla forza dell’intelligenza e dell’autocoscienza, rappresentando il volto apollineo di una narrazione dionisiaca.
Altri personaggi maschili, viceversa, concorrono proprio alle tonalità vitalistiche del racconto. Tra questi nonno Giosué e zio Silvano. Il primo è maestro del racconto davanti al fuoco, ipnotico per i bambini di casa e veicolo letterario di un elemento nostalgico, di matrice quasi sensoriale, fatto di odori, colori e sapori associabili a un’età dell’oro infantile che non tornerà mai più.
Zio Silvano, fratello di Clementina, è il protagonista del capitolo magico del libro, dai tratti più marcatamente demartiniani, poiché rappresenta l’intreccio di un’esperienza apocalittica di natura probabilmente psichiatrica, l’incontro notturno con una strega beneventana, la janara, con lo sfondo mitico-magico della cultura meridionale. Tale episodio sotterraneo e infernale si risolve con un concetto politico di riscatto dell’universo femminile e dei deboli, schiavizzato da tutti quegli uomini che con arroganza e presunzione esercitavano il loro potere sulla maggioranza delle donne meridionali.
Infine, in tutto il romanzo e specialmente alla fine, si affaccia la morte e il fondamentale, heideggeriano, compito di confrontarsi con essa.
È inutile, tutt’ cos’ cagn
Questa è l’ultima frase eraclitea pronunciata da Carmine al figlio Alessandro, che la accoglie come un rito magico musicale, come una danza tarantesca ed esorcistica, volta a celebrare la vita e esorcizzare la morte, nel ricordo di un padre dionisiaco e vitale.