Il pranzo di Sardara è la miccia della questione morale e democratica sarda
16 Aprile 2021[Danilo Lampis]
L’ormai noto banchetto di Sardara ha giustamente ricevuto come dessert un’ondata di indignazione da parte della maggioranza dei sardi.
Anzitutto per il pranzo in sé, uno schiaffo a chi rispetta le norme di prevenzione, a chi sta soffrendo, a chi affronta in prima linea l’emergenza del virus nelle corsie degli ospedali, a tutte le attività chiuse. Chi banchettava in quel tavolo avrebbe dovuto assumere una condotta personale esemplare verso i cittadini – in linea con il ruolo svolto –, soprattutto in questo difficile momento dove la stanchezza per le limitazioni e la crisi economica mordono più che mai. Ma evidentemente è sconosciuta anche la minima soglia di decenza. I politici regionali che minimizzano l’accaduto sono in ogni caso coinvolti, perché tanti dei presenti sono stati scelti proprio da loro, compreso il portavoce di Solinas. La responsabilità è dunque innanzitutto di una parte consistente degli eletti, dei loro molteplici interessi e, non si fatica a immaginarlo, delle loro subalternità verso pezzi del mondo privato che portano voti.
Tuttavia, la rabbia verso l’arroganza e il senso di intoccabilità che hanno animato il ritrovo, non deve far perdere di vista la portata che può avere questo evento per la società e la politica isolana. I silenzi che persistono sui motivi di quel pranzo e la composizione altamente eterogenea dei commensali, sono l’ennesima riprova di quanto sia necessario far detonare in Sardegna una grande questione morale che metta in discussione pratiche e costumi opachi, scambi di favori e spartizioni di poltrone e risorse che innervano tutte le ramificazioni del potere isolano nei suoi volti pubblici e privati. Una questione che vada a mettere in discussione un pezzo importante di ceto politico-amministrativo-imprenditoriale che si è fatto in questi decenni oligarchia e che si riproduce grazie alla cooptazione, in una situazione generale di democrazia a bassa intensità.
Ma attenzione: aprire un grande dibattito sulla questione morale non significa ridurre tutto alla necessità di una politica trasparente, rispondente al mandato popolare, che non occupi tutte le ramificazioni pubblico/private con “clientes” spesso senza capacità e competenze adatte al ruolo rivestito. Superare questa situazione politica feudale è soprattutto una condizione decisiva per risolvere il sottosviluppo dell’isola, perché le oligarchie di cui parliamo sono largamente responsabili del collasso economico e sociale della Sardegna, essendo da sempre più impegnate nella riproduzione di sé stesse e nell’intermediazione di interessi altri piuttosto che nella costruzione di un modello di sviluppo endogeno, giusto socialmente e sostenibile ecologicamente, di cui ci sarebbe un disperato bisogno.
Rompere con questo sistema di reti di potere che soffoca le possibilità dell’isola non è facile, soprattutto se si pensa di farlo solo con un approccio contestatario, giustizialista o pensando che, poco prima della prossima tornata elettorale, basti unire una serie di partiti alternativi ma non radicati che, ancora una volta, non riusciranno ad essere realmente competitivi. Si tratta di un sistema collaudato e continuamente oleato per assorbire istanze di ogni sorta, anche le più scomode, con lo scopo di depotenziarne l’eventuale carica trasformativa. Ma è un sistema che può funzionare soltanto con una democrazia agonizzante e aconflittuale, specchio di una società che in basso è stata frammentata, mentre in alto, come vediamo, mostra una forte capacità di coagularsi attorno a convergenze di interessi. Sarà infatti un caso che questo pranzo giunga nel momento in cui si parla delle 60 nomine del maxi-staff della giunta regionale o, se vogliamo allargare un po’ lo sguardo, nel momento in cui si discutono i dettagli del Recovery Plan e delle linee della programmazione FESR 2021-2027? Starà ai coinvolti eliminare questi dubbi legittimi, che prefigurerebbero l’esistenza di un consiglio regionale parallelo, ma non eletto da nessuno.
Le indagini faranno il loro corso. Per chi però non si rassegna a svolgere il ruolo di opinionista, è tempo di prendere atto che il vulnus democratico non sarà risolto dagli stessi che l’hanno creato, pena il dare ancora fiducia al teatrino dell’alternanza di governo senza alternativa sociale e politica, nei metodi e nei programmi. Un’alternanza senza vera alternativa che finora non ha dato risposte all’altezza delle drammatiche domande sociali dell’isola, garantendo altresì la permanenza dei pezzi di potere politico-amministrativo-imprenditoriale tossici. Questi ultimi vanno relegati al passato, ma la priorità per cambiare davvero pagina è quella di gettare le basi per una nuova irruzione democratica fondata sulle necessità della Sardegna che lavora o che è disoccupata, della giovane Sardegna che studia e che è costretta ad emigrare, della Sardegna che ha bisogno di cura e solidarietà per non invecchiare nella solitudine di luoghi sempre più desolati. Un’irruzione della Sardegna degna che rivoluzioni la politica e il senso comune isolano.
Nonostante le ovvie difficoltà, non ci sono scorciatoie: tutto il tempo e le energie che si hanno, in questa terra che ogni giorno affronta le conseguenze della progressiva desertificazione produttiva, sociale, culturale, vanno spese facendo una politica generativa ed emancipativa che punti a costruire nuove alleanze sociali nelle città come nelle tante medie e piccole comunità; che punti a vivificare la democrazia sarda, trasformando il malessere privato in conflitto sociale e in progetto di trasformazione quotidiana. È necessario seminare sui territori per costruire un tessuto vivo nel “basso” della società, per rispondere ai bisogni e ai desideri delle persone, praticando concretamente – e non limitandosi ad enunciare – un’alternatività vera nei contenuti e nei metodi in campo associativo, amministrativo e privato. Servono esempi credibili, tanto studio, azioni concrete e sinergiche con altri simili per costruire un’alternativa non testimoniale ma potenzialmente maggioritaria. È una questione di potere, ma del potere inteso come verbo che si agisce con chi sta accanto, che innesca relazioni di cambiamento nella cittadinanza, che scommette su processi aperti in grado di mettere in circolo le idee. Non del potere come sostantivo che induce alla delega e alla passività generalizzata, habitat perfetto per la riproduzione di élites dannose per il bene comune.
È da questa nuova società sarda cosciente di sé stessa, che tanti/e in forme diverse stiamo provando pazientemente a costruire in diversi ambiti e sui territori, che a un certo punto dovrà emergere politicamente la forza radicale – che va dunque alla radice dei problemi per risolverli – che diventerà dirigente ancora prima di misurarsi con le tornate elettorali.
Danilo Lampis è laureato in scienze filosofiche presso l’Università di Bologna con una tesi vincitrice nel 2019 del premio internazionale della Fondazione Gramsci. Scrive per alcune testate online e cartacee. Lavora come insegnante precario e progettista sociale e fa parte dell’amministrazione comunale di Ortueri.