La direzione è storta
1 Maggio 2021[Roberto Loddo]
Chi è abituato a guardare il mondo con gli occhi delle vittime ha compreso da tempo che questo mondo è fallito. Lo ha compreso anche Filippo Kalomenìdis, scrittore e sceneggiatore sardo-greco e autore di La Direzione è storta, reportage lirico sulla pandemia e i virus del potere per Homo Scrivens editore.
Un libro che racconta la sua esperienza di volontario nei centri di isolamento per malati di Covid-19 a Bologna fino all’approdo nelle isole greche al confine col Sud del mondo dove le persone migranti vengono private di ogni diritto e recluse in eterni campi di prigionia e respinti verso il nulla.
Un vero e proprio viaggio tra galassie di dolore e sofferenza raccontati dall’autore anche nel manifesto sardo, come la storia della giovane afgana rifugiata politica Anis e i versi a lei dedicati dalla sede della ONG Hope Project Greece, sulla strada per Thermis, la stessa dei La[1]ger di Karà Tepè e Moria. Anis, ancora bambina, viene raccontata come una coraggiosa resistente all’orrore di luoghi senza umanità che trasformano gli esseri umani in non persone, in corpi ammassati senza dignità.
Barbara Balzerani ha militato nei primi anni settanta in Potere Operaio e poi nelle Brigate rosse, è stata arrestata al termine di una lunga latitanza e ha scontato venticinque anni di carcere. Questo libro contiene la sua prefazione, mettendo in luce proprio la necessità di connettersi al mondo con gli occhi dei profughi, dei discriminati, degli incarcerati e degli affamati. Perché come scrive Barbara Balzerani “a uccidere non è il virus in sé, ma la devastazione ambientale e la produzione che non si può fermare, l’abbandono, la sanità-azienda, la povertà, le tante forme di reclusione”.
Filippo Kalomenìdis ha scritto un diario in forma di linguaggio lirico e versi che raccontano ciò che si nasconde fuori dalle narrazioni retoriche dell’andrà tutto bene, un libro che racconta i volti e i nomi dei perdenti, delle vittime di un sistema, dei protagonisti esclusi dall’attuale modo di vivere, di produrre, e di consumare. Sono parole che ci rendono consapevoli che alla fine della pandemia non ritornerà tutto come prima.
Le uniche cose che ritorneranno ad essere immutate saranno la crisi climatica e ambientale, i ricchi che saranno sempre più ricchi e i poveri che saranno sempre più poveri, perché ancora oggi la ricchezza posseduta dall’1% più ricco della popolazione mondiale è uguale a quella del resto dell’umanità. Questo libro è infatti la sintesi di un viaggio nelle macerie lasciate dal mondo fallito, un mondo sconfitto dalla pandemia e dal pensiero dominante di un mercato che si sostituisce alle persone.
Il racconto in versi del maggio 2020 a Bologna è la fotografia di ogni persona del mondo ingabbiata dall’isolamento, il racconto di una persona smarrita che cerca di fuggire dalla follia e resistere al delirio di un mondo fallito, cercando di non perdere la consapevolezza della realtà che lo circonda perché sente l’urgenza di trasformare in medicina il veleno di tutti i meccanismi sociali che originano la disuguaglianza e la sofferenza.
“Il bene non ha soffitto e il male non ha pavimento” scrive Kalomenìdis, e le sue sono parole che svelano uno scontro che in molti abbiamo provato durante l’isolamento domiciliare. Lo scontro tra la sfera emotiva di chi spera che la condizione di isolamento a cui siamo stati costretti a vivere sarebbe stata superata molto presto e la sfera della ragione di chi non ha certezze sul presente e sul futuro. L’assenza di certezza che una condizione così autoritaria e violenta come l’isolamento possa poi rendersi nuovamente necessaria o che magari si possa manifestare in forme più insidiose per una ragione anche differente da quella della diffusione aggressiva di un virus.
Mi sento parte del libro di Kalomenìdis. Perché sono convinto, come l’autore, che non è solo il virus ad aver provocato lo stato d’eccezione che stiamo vivendo. Le nostre attuali relazioni e la nostra quotidianità sono il prodotto del neoliberismo, del patriarcato, dei nazionalismi, dell’intolleranza e dell’odio. E se ne vogliamo uscirne indenni, solo la solidarietà e la collaborazione globale nell’interesse di tutti gli esseri umani sono le uniche cose razionali da fare. Non esiste un altro pianeta. C’è solo quello in cui viviamo e possiamo uscirne indenni solo se adottiamo un nuovo modo di vita, di convivenza e di consumo radicalmente differente da quello a cui siamo stati abituati.