73 anni di Nakba
13 Maggio 2021[Alessia Ferrari]
Tra qualche giorno cade l’anniversario della Nakba, la “catastrofe” vissuta dal popolo palestinese nel 1948, anno simbolo del processo di pulizia etnica del popolo palestinese. Un crimine contro l’umanità compiuto dalle milizie ebraiche ancor prima del ‘48 e perpetuato dallo Stato di Israele fino a oggi.
Ciò che sta avvenendo in questi giorni in Palestina non può non essere letto come prosecuzione della pulizia etnica, da sempre principio cardine della politica israeliana. A essere mutati sono gli innumerevoli metodi con cui questa viene portata avanti, tra i quali rientrano gli ordini di sfratto emessi dai tribunali israeliani per espellere i cittadini palestinesi che vivono a Gerusalemme, al fine di sostituirli con i coloni.
L’ultimo provvedimento della Corte Suprema israeliana ha colpito 13 famiglie palestinesi del quartiere di Sheikh Jarrah, situato a Gerusalemme Est. La Corte da giorni rimanda la sentenza finale sul riscorso e, se confermerà la sua decisione, circa 170 palestinesi, tra cui 46 bambini, saranno espulsi dalle loro case, già destinate a essere demolite per far spazio a un nuovo complesso residenziale riservato agli ebrei.
La battaglia legale per giudaizzare il quartiere di Sheikh Jarrah è portata avanti dalla società immobiliare di coloni “Nahalat Shimon”, determinata a ridurre la presenza palestinese a Gerusalemme Est. Il gruppo ebraico sostiene che sotto il dominio ottomano quelle terre fossero abitate da ebrei sefarditi e ne rivendica oggi la proprietà ebraica. Le famiglie palestinesi condannate alla deportazione vivono a Sheikh Jarrah dal 1956, anno in cui Gerusalemme Est era sotto amministrazione giordana. Fu infatti con il regno hashemita che l’Agenzia delle Nazioni Unite UNRWA concluse un accordo per la collocazione nel quartiere di Sheikh Jarrah di alcune famiglie di profughi palestinesi. Queste ultime acquisirono legalmente la proprietà delle case, ma la Corte israeliana ha deciso di non dare valore ai loro atti di proprietà.
L’intera impalcatura legislativa israeliana è funzionale a garantire il predominio della componente ebraica su quella palestinese, in primo luogo sul piano demografico. Svariate sono infatti le leggi finalizzate all’appropriazione della terra palestinese, prima tra tutte la “Legge sulla proprietà degli assenti” del 1950, che permise la confisca di tutti beni dei palestinesi che erano stati costretti a lasciare la loro terra durante la guerra del 1948. Nel 1970 Gerusalemme Est è stata oggetto di una specifica legge che consente agli ebrei di rivendicare le terre possedute prima del 1948, ma che esclude la possibilità per i palestinesi di avanzare rivendicazioni analoghe inerenti le loro proprietà a Gerusalemme Ovest.
Si potrebbe ricordare che tali azioni costituiscono una violazione del diritto internazionale: Gerusalemme Est fu occupata dalle forze israeliane nel 1967 e la Convenzione di Ginevra del 1949 vieta i trasferimenti forzati della popolazione civile dei territori occupati. L’incessante violazione del diritto internazionale ad opera di Israele e la costante impunità di cui gode fanno tuttavia apparire sempre più vacuo qualsiasi richiamo al diritto internazionale.
Le manifestazioni di protesta contro la decisione della Corte Suprema sono state represse nel sangue. L’apice della violenza si è registrato nella notte tra il 7 e l’8 aprile durante le preghiere notturne nella moschea di al-Aqsa, in cui decine di migliaia di fedeli si erano radunati per celebrare la Laylat al-Qadr (la Notte del Destino), trattenendosi nella Spianata delle Moschee come gesto di solidarietà verso le famiglie di Sheik Jarrah. Le forze israeliane non hanno esitato a sgomberare i palestinesi provocando centinaia di feriti.
Appena qualche giorno dopo, in quello stesso luogo, decine di migliaia di israeliani hanno potuto celebrare il “Jerusalem day”, una data che simboleggia “la riunificazione di Gerusalemme”, ma che non è altro che l’anniversario dell’occupazione della zona est della città.
Il 10 maggio, mentre la moschea di al-Aqsa era in preda alle fiamme, migliaia di israeliani festeggiavano l’evento intonando il macabro slogan «morte agli arabi». I video del “Jerusalem day” fotografano una realtà che i paesi occidentali continuano a nascondere dietro all’immeritato epiteto riservato a Israele di “unica democrazia del Medio Oriente”.
La notte stessa Hamas ha reagito dando inizio al lancio di razzi dalla Striscia di Gaza. Nonostante l’assenza di feriti, la reazione israeliana è stata come sempre sproporzionata all’offesa: le bombe hanno iniziato a incendiare il cielo di Gaza, provocando 20 morti, tra cui 9 bambini.
Mentre nei media mainstream si dava risalto unicamente alla “pioggia di razzi di Hamas”, Netanyahu ha annunciato il nuovo massacro, come sempre venduto al mondo come “diritto alla difesa israeliana”.
Per comprendere in cosa consista tale diritto, basta dare un’occhiata ai numeri degli ultimi più efferati massacri: nell’operazione “Piombo fuso” del 2008 i morti palestinesi furono oltre 1.200 (tra cui 400 bambini), quelli israeliani 13; nel 2014 l’operazione “Margine Protettivo” è costata la vita a 2.300 palestinesi (di cui 500 bambini) e a 72 israeliani (di cui 6 civili).
In questi due giorni Israele ha strappato la vita a 53 palestinesi, compresi 14 bambini, a fronte di 6 vittime israeliane. Oggi Netanyahu ha affermato che «è solo l’inizio». Non possiamo che chiederci quando la comunità internazionale si opporrà a tutto questo e quando i palestinesi potranno guardarsi negli occhi e dire «è tutto finito».