Sa Batalla de Seddori: niente da celebrare ma da ricordare e studiare
1 Luglio 2021[Francesco Casula]
Ieri 30 giugno ricorreva il 612° anniversario di Sa Batalla di Sanluri: forse la data più infausta dell’intera storia della Sardegna perché segnò l’inizio della fine della indipendenza e della libertà dei Sardi e della Sardegna. Una fine tutt’altro che scontata ed ineluttabile.
Infatti con l’ultimo Marchese di Oristano, Leonardo d’Alagon, (dal 1470 al 1478) sarà ancora scossa e attraversata da momenti di dissenso e di ribellioni nei confronti dei catalano-aragonesi, culminati in opposizione armata prima con la battaglia di Uras (1470) e infine con la sfortunata e definitiva sconfitta di Macomer (1478).
Una data infausta insieme al 238 a.C. che segnò l’inizio dell’occupazione e del brutale dominio romano; al 1297, quando il papa Bonifacio VII, con la Bolla Licentia invadendi, infeudò del regno di Sardegna e Corsica, appositamente e arbitrariamente inventato, Giacomo II d’Aragona, invitandolo di fatto a invadere e occupare militarmente le Isole, cosa che puntualmente avverrà, almeno per la Sardegna; al 1820, quando furono emanati gli Editti delle Chiudende, che posero fine al millenario uso comunitario delle terre da parte di tutto il popolo, usurpate dai nuovi proprietari, in un ciclonico turbinio di inaudite illegalità, sopraffazioni e violenze; al 1847, quando con la Fusione perfetta, la Sardegna fu privata del suo Parlamento.
Il 30 giugno 1409 infatti presso Sanluri, si scontrarono l’esercito siculo-catalano-aragonese, guidato da Martino il giovane, Re di Sicilia e Infante di Aragona, e l’esercito sardo-giudicale, al comando di Guglielmo III visconte di Narbona, ultimo giudice-re del Giudicato d’Arborea, che fu battuto e disfatto in quella atroce battaglia. Finiva così la sovranità e l’indipendenza nazionale della Sardegna che, dopo cruente battaglie i Sardi-Arborensi, prima con Mariano IV e poi con la figlia Eleonora, erano riusciti ad affermare, prevalendo sui Catalano-Aragonesi e dunque riuscendo di fatto a ottenere il controllo su tutto il territorio sardo e coronando in tal modo il sogno, di unificare l’intera nazione sarda.
Il regno d’Arborea infatti dal 1392 al 1409 comprenderà l’intera Isola, eccezion fatta per Castel di Cagliari e di Alghero: Isola governata e gestita sulla base di quella moderna e avanzata Costituzione che fu la Carta de Logu, che promulgata dalla stessa regina Eleonora, rimase in vigore per ben 435 anni, fino al 1827, quando entrò in vigore il Codice feliciano.
Ma ritorniamo alla battaglia di Sanluri: lo scontro finale cominciò all’alba di domenica 30 Giugno del 1409, (al alva de Domingo del mes de Junio: così infatti scrive negli Anales della Corona d’Aragona lo storico aragonese Geronimo Zurita); quando l’esercito siculo-catalano-aragonese, lasciato l’accampamento cominciò ad avanzare ordinatamente (con horden) fino a un miglio a sud est di Sanluri (Sent Luri).
Davanti stava Pietro Torrelles (en la avanguardia Pedro de Torrellas), il capitano generale, con mille militi e quattromila soldati (con mil hombres de armas, y quatro mil soldados), mentre il re Martino il Giovane, più indietro guidava la cavalleria e il resto formava la retroguardia. A loro si contrapponeva, sbucando improvvisamente da dietro un poggio, appena a Oriente di Sanluri e chiamato ancora oggi Bruncu de sa Batalla, l’esercito giudicale comandato dal re arborense Guglielmo di Narbona-Bas con i fanti e i cavalieri (con toda la gente de cavallo, y de pie), nascosti dietro una collina. Quanto durò esattamente la battaglia non ci è dato di sapere, Geronimo Zurita parla genericamente di “por buen espacio”.
Certamente fu dura e accanita. E, purtroppo, perdente per i Sardi. La tattica degli Aragonesi infatti, il cui esercito assunse una formazione a cuneo, sfondò il fronte delle forze sardo-arborensi che investite al centro, fu diviso in due tronconi. La parte sinistra si divise a sua volta in due parti: la prima ripiegò a Sanluri dove trovò rifugio nel borgo fortificato e nel castello di Eleonora; le mura però non resistettero all’assalto e le forze aragonesi irruppero massacrando a fil di spada gran parte della popolazione civile, senza distinzione di sesso e di età, mentre 300 donne furono fatte prigioniere. La seconda parte, guidata dal re Guglielmo III, si rifugiò nel castello di Monreale, a poche miglia di distanza, senza che gli Aragonesi riuscissero a inseguirli. Così: “el Vizconde con los que escaparon huiendo de la batalla, al castillo de Monreal” si salvò.
Morirono invece sul campo ben cinquemila Sardi (y murieron en el campo hasta cinco mil)mentre quattromila furono catturati: sempre secondo i dati di fonte storica aragonese e dunque da prendere prudentemente, cum grano salis. Di contro solo pochissimi nobili iberici persero la vita ((Murieron en esta batalla de la
Parte del Rey muy pocos, y los mas senalados fueron, el vizconde de Orta, don Pedro Galceran de Pinos, y mossen Ivan de Vilacausa). Le fonti aragonesi non riportano alcun dato sui soldati semplici: evidentemente contano poco o, niente.
La località, una collinetta subito dopo il bivio “Villa Santa” guardando verso Furtei, dove avvenne una vera e propria strage conserva ancora oggi, in lingua sarda, un nome sinistro e tristo: Su occidroxiu. Ovvero il mattatoio: dove insieme a migliaia di sardi fu “macellata” non solo la sovranità e l’indipendenza nazionale della Sardegna ma la stessa libertà dei Sardi.
Ci sarebbe, a fronte di tutto ciò, da chiedersi cosa ci sia da “celebrare” in occasione della ricorrenza del 30 Giugno, segnatamente a Sanluri, come da anni avviene. Da celebrare niente. Molto invece da rievocare per conoscere la nostra storia: nelle sconfitte come nelle vittorie. Per conoscere il nostro passato, per troppo tempo sepolto, nascosto e rimosso: dissotterrandolo. Perché diventi fatto nuovo che interroga l’esperienza del tempo attuale, per affrontare il presente nella sua drammatica attualità, per definire un orizzonte di senso, per situarci e per abitare, aperti al suo respiro, il mondo, lottando contro il tempo della dimenticanza e della smemoratezza.
Proite unu populu chi non connoschet s’istoria sua, su tempus colau, non tenet ne oje nen cras.