La triangolazione dell’accabadora

1 Luglio 2021

[Marinella Lőrinczi]

La parola accabadora non è stata scritta in minuscolo per semplice distrazione. Qui il vocabolo sarà riferito al personaggio della supposta tradizione sarda e non al noto romanzo di Michela Murgia.

Tuttavia uno dei punti di partenza si trova anche in questo racconto, laddove uno dei personaggi romanzeschi si sposta, sicuramente non a caso, a Torino, per poi ritornare in Sardegna. Così abbiamo tracciato uno dei lati del triangolo, che attraverso e nella figura dell’accabadora collega la Sardegna a Torino, o più estesamente al Piemonte, e vice versa, con una sottaciuta ma non per questo meno intuibile allusione al Regno di Sardegna e del Piemonte (1720 – 1861), tanto per nominare i territori più importanti di questo nuovo Stato postispanico.

In verità il legame accabaduriale tra Torino e la Sardegna, nei testi scritti, risale per la precisione al Voyage en Sardaigne del 1826 del torinese Alberto Ferrero della Marmora (II ed. 1839), che fornirebbe la prima attestazione a noi pervenuta della credenza popolare. Nella traduzione italiana (del 1926, a pp. 218-9) La Marmora afferma:

“Quanto all’uso d’affrettare la fine dei moribondi, che si è preteso esistesse già nell’isola, dove ne sarebbero incaricate certe donne dette perciò accabadure (nome che deriva da accabare, compiere, finire), è veramente esistito? o, come è probabilissimo, si tratta d’una semplice tradizione popolare? Non saprei deciderlo, nonostante la polemica vivace che questo argomento ha destato di recente: il fatto è che ai nostri giorni non ne esiste traccia alcuna.”

Sarebbe stato interessante rintracciare anche la documentazione della polemica; che avrà forse spinto lo scrittore piemontese Carlo Varese (1793-1866), a tirarne fuori un lungo racconto inserito nel romanzo storico Folchetto Malaspina (1857), i cui fatti si svolgono nel XII secolo; il cap. IX s’intitola, appunto, L’accabadura. Varese cita come fonte, in maniera generica, proprio il Viaggio di La Marmora. 

Qui mi fermo e cambio rotta: passo alla parola stessa, che ha la sua prima origine nella lingua spagnola (o nelle lingue iberiche romanze in generale), cioè, come si sa, nel verbo acabar. Numerose sono nei secoli, e arcinote, le rappresentazioni e raffigurazioni simboliche della morte falciatrice di vite umane, perciò l’assimilazione ad esse di una eventuale muerte che è acabadora di esistenze dolorose o tormentate mi è parsa del tutto naturale e plausibile. L’ho trovata immediatamente in rete, citata numerose volte, l’espressione muerte acabadora, all’interno di un testo spagnolo dei primi anni del Seicento. E così abbiamo ottenuto il secondo lato del triangolo.

Dicono e dissero da subito gli esperti che tale documento spagnolo è di importanza primaria per la storia coloniale dell’Argentina. E’ un poema storico composto di oltre diecimila versi, una cronaca in rime di eventi vissuti o ascoltati, il cui valore letterario e estetico importa molto meno. Scritto da un religioso spagnolo, don Martín del Barco Centenera, s’intitola La Argentina, o la conquista del Río de la Plata, poema histórico e fu stampato per la prima volta nel 1602 a Lisbona. Barco Centenera (1535-1602?) parte per le Americhe nel 1572 e vi trascorre 24 anni.

L’episodio che qui interessa maggiormente si trova in una posizione testuale molto intrigante, all’interno del canto XXII. E’ immediatamente successivo alla descrizione di un terribile terremoto, probabilmente quello del 1584, che devastò l’abitato di Arequipa (ora in Perù):Trescientas y más casas se cayeron “Crollarono più di trecento case”. Dopo la lunga e dettagliata presentazione degli effetti del terremoto sull’abitato e sulla comunità, seguono due casi di ‘terremoti’ privati, di omicidi in famiglia, evidentemente di grande risonanza da quelle parti, perpetrati da donne e dai loro amanti, le cui vittime sono – a questo punto si capisce già – i mariti. Il primo venne garrottato nel sonno, e in seguito appeso ad un albero per simulare un suicidio. Il secondo, Gil González, hombre honroso, uomo molto rispettabile, fu ammazzato a coltellate, con la moglie che lo graffiava su tutto il corpo, mentre lui implorava pietà e le chiedeva  singhiozzando Mujer mía, ¿qué os he hecho?, sposa mia, che cosa vi ho fatto? Dopo tutte le sofferenze che i due gli infliggono spietatamente – quanto era stato spietato il terremoto precedente – alla fine sopraggiunge la muerte acabadora de contentos, de bienes y de males y tormentos, la morte che pone fine a tutto, alle cose buone e a quelle cattive, e soprattutto ai dolori e ai tormenti.

E’ difficile rendersi conto della popolarità del poema nel mondo ispanonofono di cui faceva parte anche la Sardegna fino a secolo XVIII inoltrato, sebbene soprattutto nei limiti delle élites politiche e culturali. Ciononostante, contenendo il testo la prima menzione del nome Argentina che si diffuse per merito di questo documento, ne possiamo dedurre una notevole popolarità e l’esistenza di numerose edizioni. Le storie importanti, impressionanti e truculente che esso contiene possono aver impresso nella memoria collettiva l’espressione muerte acabadora … de males y tormentos, quale personificazione simbolico-allegorica, nella accabadora, della morte risolutrice di atroci sofferenze. E questo potrebbe essere il terzo e ultimo lato del triangolo concettuale.

Siamo così tornati in Sardegna. Si tenga inoltre presente che il gesuita Antonio Bresciani (1798-1862), autore di Dei costumi dell’isola di Sardegna … (prima ed. 1850), non “riportò un episodio narratogli da una donna [qualsiasi] che in gioventù, colpita da grave malattia, dopo aver ricevuto l’estrema unzione, alla vista dell’accabadora fu presa da un tale orrore che il trauma la portò a una repentina e miracolosa guarigione”.

Niente affatto. Padre Bresciani riproduce invece il racconto di un suo interlocutore,  che viene infatti riferito assai diversamente (p. 392, ed. 1861). Il narratore primario è, o meglio era stato, un altro religioso, tal padre Boero, che fu per “parecchi anni maestro di lettere in Sardegna” (p. 222). E queste dovrebbero essere le sue proprie parole (miei i grassetti):

“Essendo io in Sardegna, mi venne udito più volte di questa barbara usanza: ed una vecchia gentildonna dicea d’aver conosciuto nella sua giovinezza un’avola antica, la quale narrolle ch’essendo essa ne’ diciott’anni la prese una malattia acuta che la condusse agli estremi. Avea già avuto l’ultimo Sacramento e il prete le stava al capezzale; quand’ecco una fante entrarle in camera da un uscio che le stava dirimpetto, e vide a caso l’accabadore che in quell’anticamera attendea, se uopo vi fosse, di soffocarla, per cortesia d’accorciarle il patimento. E assicurava che a quella vista fu sì forte e sì subito il brivido e l’orrore che le corse nel sangue, che il male diè volta in una felicissima crisi di sudore, e fu guarita.”

Ma Bresciani aveva già premesso che “i Sardi impugnano gagliardamente [questa certa novella che riguarda sas accambadoras, femmine], e chiamansela una stolta bugia del volgo.” (p.391) Mentre nel lungo brano sopra citato il sostantivo è al maschile (anche se potrebbe essere un refuso). Ma, comunque sia, ritorniamo cronologicamente, di racconto in racconto, come minimo alla fine del Settecento, due generazioni addietro, e chi narra lo fa per sentito dire, attraverso le parole di altre “anziane gentildonne”. Ed è questa, per ora, la testimonianza indiretta più antica in assoluto sull’accabadora sarda, precedente quella di La Marmora, ma pubblicata dopo il suo Voyage.

Possiamo solo immaginarci le accese chiacchiere di allora che ne son seguite.

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