Intellettuales
1 Aprile 2010Natalino Piras
Considerazioni a margine dell’incontro cagliaritano, il 25 marzo scorso, con Simonetta Fiori e Alberto Asor Rosa sul ruolo degli intellettuali. Potremmo oggi dirlo non-ruolo. Caminantes. Peregrinos. Chene contu e nen capu. Mancano lumen e sapientia cordis. Non c’è, non si vede, un punto verso cui convergere, sia questo santuario, sezione di partito, semplice ritrovo. Nella società liquida la comunicazione, anche letteraria, si è liquefatta, disgregata, atomizzata in tante microfratture, cellule impazzite dove sono la non-parola e il non-senso a dominare. È una società, quella in cui siamo immersi e sommersi, dove spesso si fa l’elogio del brutto. È questo brutto, come ribaltamento dei valori estetici, a dominare, a imporre le regole. Leggete nella moltitudine dei blog: è un dare subitaneità, spesso violenta, incontrollata, inconsulta, all’impulso, alla non mediazione di pensiero necessaria per esprimere un qualcosa che non sia solo visceralità, rabbia, suono, cacofonia, effetto illusorio. Tutti hanno accesso, come è giusto che sia. Ma non ci sono “cori di controllo”, quelli che nel teatro brechtiano servono a stabilire il necessario distacco tra quanto è nella rappresentazione delle parole e dei fatti e la loro interpretazione. È venuta in questo a cadere la mediazione intellettuale, il ruolo del critico potemmo dire, anche perché gli intellettuales della società liquida rispondono alla disgregazione con la chiusura dentro le microfratture dove l’unica, possibile sopravvivenza è garantita dalla contemplazione del proprio ombelico senza soluzione di continuità. È chiaro che in questo tipo di rifrazione, l’effetto di un vetro infrangibile contro cui viene scagliato un sasso, sono gli egoismi a interrelare il brutto e il suo elogio, i suoi elogiatori. Non è più possibile, in questo tipo di società, un ruolo gramsciano per gli intellettuali, Un materialismo storico su cui poggiare e fare affidamento, un poetare operaio come prassi del pensare e come prassi del fare. Non c’è più classe operaia, liquefatta anch’essa dentro gli egoismi del brutto che ha del tutto soppiantato la categoria della solidarietà. Non che questa debba essere una cosa da imporre. Chi ha avuto esperienza di fabbrica, di cantiere, di bracciantato, sa che non esiste, non è mai esistito nella quotidianità delle otto ore un sentirsi fratelli e uguali, ugualmente sfruttati, a priori. Sono o sono state le condizioni della dura fatica, della disuguaglianza, dello sfruttamento nel cantiere e nella fabbrica, nei campi e nelle officine, a far mettere insieme le persone, a far fare fronte comune contro gli egoismi. E pure a generare quella letteratura operaia dove insieme a cose esteticamente valide ce ne erano pure di decisamente brutte. Non sempre l’etica del lavoro ha salvaguardato dalla retorica delle tute blu, dall’apparenza della catena di montaggio messa in pagina o cantata in versi in maniera del tutto distante da quella che è, era, la vera esperienza della catena di montaggio. Taylorismo e fordismo (scientificità nell’organizzazione del lavoro, la catena di montaggio come massima espressione di produttività) hanno fatte nascere grandi scrittori, Dos Passos, Gertrud Stein, Theodor Dreiser di “Our Sister Carrie” ma pure creato mostri, carriere di intellettuales e literados che hanno esaltato l’etica del lavoro senza sapere cosa questo realmente fosse, i suoi meccanismi, la sua “massa bruta” come ben dice Bachisio Zizi nei suoi romanzi di cava e di miniera. Non salva l’anima davanti a un dio operaio l’essere appartenuti solo come afflato intellettuale ai vari gruppi 63, all’umanità della fabbrica olivettiana, alle ombre rosse (solo ombre), al ripetere teatralmente, solo teatralmente il “Canto general” di Neruda specie dove dice: “Io ero nella galena e nel carbone, là dove si estrae il minerale, con gli eroi oscuri…” Non salva l’anima e le anime questa appartenenza anche perché la società liquida tutto ha omologato e omogeneizzato, anche il falso sentire. Anche il felliniano vitellonismo di Alberto Sordi che irride i “lavoratori che lavorate”, voce da basilisco cicisbeo e mano sinistra che batte sul braccio destro. Salvo poi mutare tutta questa sicumera in mitezza, quando l’auto in panne dei vitelloni viene raggiunta dal camion con gli operai sul cassone. Non c’è più un senso del raccontare. Non ci sono più anima né anime perché molte condizioni di esistenza e sussistenza di tutto questo sono venute a mancare. Né c’è, né si intravede un cantore, un romanziere che come Moravia negli “Indifferenti” sappia narrare l’estrema noia, l’inettitudine e lo schifo di questa società liquida sempre più virante al nero, alla melmosa bumbula che come nel finale di “Sbatti il mostro in prima pagina” di Bellocchio invade lo spirito delle acque, le inquina, le devasta irrimediabilmente.
Domenica 4 aprile è per i cristiani Paska: di Resurrezione. Da tempo, in una società non ancora liquida anche gli intellettuales avevano smesso di sfruttare il mistero di colui che risorge dai morti come organizzazione della speranza: pure nei lager, nelle città diventate universi concentrazionari, nelle fabbriche e nei quartieri disgregati. Nella società liquida invece, il mistero e la speranza di colui che risorge dai morti bisognerebbe rubarlo, come atto di parola, prenderglielo dalle mani, a chi lo riduce a barzelletta. E su questa riduzione a barzelletta istituisce e rafforza il proprio potere di comunicazione e seduzione: potere tout court a venature dittatoriali. Ma dove sono gli intellettuales che possano attuare, dare prassi, a questa idea? Proviamo allora a consolarci, a fare anche noi un poco di retorica e cantare come Peppino Marotto il Primo Maggio, “Paska manna de su mundu proletariu”. Già , il primo maggio, festa del lavoro che non c’è più.