Sacro e profano nella cultura e nella tradizione popolare sarda
2 Marzo 2023[Francesco Casula]
Nei giorni scorsi a Quartu Sant’Elena l’Associazione culturale Femminas ha organizzato una conferenza sul tema “Sacro e profano”. Pubblichiamo l’intervento di Francesco Casula.
Sacro e profano nella cultura e nella tradizione popolare sarda rappresentano un binomio inscindibile che s’incarna e s’incardina in tutta la nostra storia, passata e presente.
Entro subito in medias res con un esempio tratto dalla letteratura sarda, un passo dell’opera di Sigismondo Arquer “Sardiniae brevis historia”: Quando i contadini celebrano qualche festa, dopo la Messa, per tutto il resto della giornata e della notte ballano – uomini e donne – dentro la chiesa del Santo, cantando canzoni profane; inoltre uccidono maiali, montoni e buoi e mangiano allegramente di queste carni in onore del Santo. Vi sono anche di quelli che ingrassano qualche maiale in onore di un santo, per poterlo poi mangiare durante la festa, spesso in una chiesina costruita fra i boschi. E se la famiglia non è tanto numerosa da poter consumare tutta quella carne, perché non ne avanzi, invitano altre persone al banchetto che si fa dentro la chiesa stessa. E siamo nel 1550!
Ma a parte questo chiarissimo esempio di connubio e di ibridazione fra sacro e profano in realtà questo è presente in tutta la cultura popolare sarda come nelle tradizioni e le Feste: che sono nello stesso tempo religiose e profane. Alcuni studiosi fanno risalire alcune feste popolari e religiose addirittura al periodo prenuragico o comunque a quello nuragico in cui le comunità sarde periodicamente si ritrovavano e si riunivano nei “santuari” di allora: a Santa Cristina di Paulilatino come a Santa Vittoria di Serri.
L’intelligenza e la flessibilità della Chiesa cattolica è stata nel sopprimere ma nello stesso tempo di recuperare e mediare quel senso di segno magico-pagano e profano, quell’universo mitico di estrazione folclorico-rurale, proveniente da antichissime abitudini precristiane, mai completamente sradicate, nell’ambito sacro del Cristianesimo e delle sue feste.
Tanto che oggi non esiste scadenza liturgica importante che non presenti innesti di tipo pagano-profano, che la Chiesa comunque renderà compatibili con la simbologia cristiana, riplasmandoli in questo modo dal Natale alla Pasqua, dalla Quaresima alla Festa dei morti, dalla festa di San Giovanni a quella di Sant’Efisio, un’ampia gamma di soluzioni sincretistiche punteggerà in modo discreto ma persistente lo sviluppo dell’intero anno liturgico, per non parlare della loro presenza nel ciclo esistenziale di ciascun individuo: dalla culla alla bara.
Dicevo della Pasqua (in sardo sa Pasca manna per distinguerla dae sa Paschixedda). Ebbene nelle Feste pasquali, nella Settimana Santa, nel ricordo rituale e drammatizzato della Passione di Cristo, l’elemento sacro e religioso si coniuga e si unisce a quello profano, riferibile al cosiddetto ciclo dell’anno e a rituali magico propiziatori legati, soprattutto in ambito rurale, alla rigenerazione primaverile della natura. Cosicché nell’elemento che accomuna la liturgia ufficiale della Chiesa e gli usi locali, le cosiddette paraliturgie, vi è la consapevolezza di vivere in quei giorni, una fase di passaggio e di rinnovamento interiore, di transito da una condizione di negatività a una, auspicata e propiziata, di benessere e prosperità di nuova vita.
Abbiamo così due tipologie di rituali: quelli propriamente liturgici, con i riti del sacro oggetto della liturgia di Santa romana chiesa (fino a non molto tempo fa celebrati in latino) e quelli paraliturgici, in genere tramandati dalle Confraternite, dalla gente comune che spesso riprendono e riadattano a uso del popolo, i cerimoniali ufficiali, altre volte si sovrappongono ad essi introducendo, sincreticamente, usi e credenze di origine precristiana. Due tipologie di rituali insomma che a volte convergono a volte sembrano configgere fra loro e, per questo motivo hanno subito talvolta nel corso dei secoli e persino oggi, l’ostracismo e l’opposizione delle autorità ecclesiastiche.
Persino oggi il rapporto fra parroci e sodalizi confraternali, vere e proprie macchine collaudate per trasmettere le paraliturgie, non sempre è stato o tuttora è idilliaco: ma a scontrarsi più che il sacro con il profano spesso è la tradizione sostenuta dalle comunità locali dei credenti con la linea ufficiale della Chiesa. Finché i due binari quello dell’ufficialità e quello della località scorrono paralleli e in rapporto di buon vicinato, non si verifica alcun problema. Le difficoltà emergono invece quando vi sono dei reali o presunti sconfinamenti di campo.
Persino nelle cronache giornalistiche assistiamo a contrasti e brias fra Parroci e Confraternite e Pro Loco. O prendiamo la Festa di San Giovanni del 24 giugno. Ebbene fin dal primo Cristianesimo, di età patristica, la Chiesa ha fatto confluire in un tema della liturgia (Il giorno natale del Battista) quel che rimaneva allora del culto solstiziale di un’antica visione urano- agraria legata al momento del raccolto e ricco di valenze propiziatorie (della terra e della donna). Il culto si è imposto alla Chiesa come qualcosa che sarebbe stato difficile sradicare tanto che ancora oggi sopravvivono elementi precristiani: i falò (su fogaroni), la raccolta delle erbe da destinare a chi verrà scelto come compare. Is cannas friscas.
Proprio il Comparatico di S. Giovanni colpirà l’interesse di un illustre viaggiatore italiano in Sardegna. Alberto Ferrero della Marmora, torinese, scrittore, geografo e militare che visiterà la Sardegna, la prima volta nel 1819 e in seguito vi soggiornerà più volte. Egli infatti soggiornò nell’Isola, sebbene non stabilmente, per un arco di quasi quattro decenni, dal 1819 al 1857. Scriverà Itinerarie de l’île de Sardaigne (1860) ma soprattutto quei monumenti che sono i quattro volumi di Voyage en Sardaigne, ou description statitique, phisique e politique de cette ile, avec des recherches sus ses produtions naturelles et ses antiquités (1826).
In quest’opera scriverà a proposito della Festa di San Giovanni: Oltre al comparatico per un bambino tenuto al battesimo o alla cresima, ve n’è un terzo detto di S. Giovanni, che è in uso solo fra i campagnuoli.
Due persone di sesso diverso, ed in generale coniugate, si scelgono reciprocamente come compare e comare di San Giovanni: l’accordo si conclude presso a poco due mesi prima. Alla fine del mese di Maggio, la futura comare prende un pezzo grande di corteccia di sughero, lo arrotola facendone un vaso, lo riempie di terra e vi semina un pizzico di grano della qualità migliore. S’innaffia, di tanto in tanto la terra con cura e il grano germina rapidamente, sì che in capo ad una ventina di giorni si vede un bel ciuffo detto erme o nènneri.
Il giorno di S. Giovanni il compare e la comare prendono questo vaso e, accompagnati da un corteo numeroso, s’incamminano verso una chiesetta dei dintorni. Giunti là, uno dei due getta il vaso contro la porta; poi tutti insieme mangiano una frittata colle erbe: infine ciascuno, mettendo le mani su quelle del suo vicino o della vicina, ripete ad alta voce ed a più riprese, queste parole: compare e comare di S. Gíovanni; si balla per parecchie ore e la festa è finita.
Parlando di Feste popolari e religiose in cui il binomio sacro-profano è corposamente presente e difficilmente separabile non si può sottacere quella di Sant’Efisio a Cagliari. Si celebra da secoli (i656) il primo maggio, ininterrottamente (a parte l’interruzione per il Covid) e rientra all’interno di quelle Feste che si celebrano numerose ogni anno per assolvere l’impegno di un voto fatto dalla cittadinanza in seguito alla diffusione della peste, che si credette risolta con un intervento miracoloso del santo. Fu scelto proprio il mese di maggio poiché simbolo di rigenerazione della natura. Anche questa Festa, storicamente ed ancora oggi è presente insieme, una forte dimensione religiosa e devozionale ma anche ampi tratti profano- folcloristici, ludici e spettacolari e, viepiù consumistici e di mercato.
Occorre infatti affermare con nettezza ed essere consapevoli, pur senza moralismi predicatori, che molte feste popolari e religiose – soprattutto quelle ad alta intensità di partecipazione di vere e proprie folle (a Cagliari Sant’Efisio, a Sassari I candelieri e a Nuoro Il Redentore) a poco a poco e progressivamente si stanno trasformando in una celebrazione meramente consumistica, in larga parte gestite secondo modelli elargiti a piene mani dall’industria culturale-mediatica dell’immagine e del mercato. In cui rischia di scomparire non solo la dimensione religiosa ma anche quella profana della tradizione culturale e simbolica del nostro passato.
La festa rischia infatti di entrare solo nell’economia dei consumi, come semplice momento ludico ed edonistico, cui si assiste ma non si partecipa. E magari è fatta – penso soprattutto alle grandi Feste come San’Efisio – più per i turisti che per i sardi.
Occorrerà una battaglia per restituire alla Festa, popolare e religiosa, la sua dimensione e funzione autentica, di strumento prezioso di incontro e autoconsapevolezza di sé e delle proprie radici, di conoscenza delle nostre tradizioni e della nostra civiltà oltre che della propria fede religiosa.
Una Festa, come simbolo sacro della propria identità, della propria appartenenza e sodalità di paesani, soprattutto a fronte della omologazione crescente, culturale prima ancora che economica.
Dobbiamo infatti considerare e vivere la Festa religiosa popolare tradizionale come un nostro bene culturale identitario, un nostro rito collettivo comunitario di sarditudine, irrinunciabile per le nostre comunità locali, che coniuga la tradizione e la cultura popolare con la religiosità, dove il moderno si coniuga con l’antico e l’arcaico.
Senza queste due dimensioni Sant’Efisio come altre Feste, rischiano di ridursi a spettacolarizzazione multimediale, magari solo in funzione del turista, con scarse o nulle possibilità di risonanze nelle coscienze individuali e nella comunità.