Claudia Aru, sarda, donna e artista
15 Settembre 2023[Francesco Casula]
La cantante Claudia Aru incardina e incarna il suo essere donna e artista nell’essere sarda. La sua sardità infatti (o sarditudine che dir si voglia) sostanzia, corrobora e plasma la donna e l’artista che è in lei.
Donna decisa empatica brillante. Artista esplosiva intrigante poliedrica e versatile. Compone recita balla inventa. Canta e incanta. E’ affilata e creativa affabulatrice. Una completa e deliziosa cabarettista: se questa figura non fosse ridotta – come oggi rischia – a mero guitto che diverte e ispassia.
Sia ben chiaro, la componente ludica e scherzosa in Claudia Aru è presente: ma la sua attività/arte non può essere ridotta a puro divertissement e gioco. E’ sempre presente e sottesa la dimensione dell’engagement, dell’impegno, del messaggio, culturale e persino politico: mai insistito e predicatorio, spesso subliminale e in suspu ma talvolta anche esplicito, diretto, aperto: invitante e persino incitante alla lotta per il cambiamento.
Un messaggio profondamente identitario: ad iniziare dalla lingua sarda che utilizza. Di una identità dinamica e variabile, fatta di somme e di accumuli e non di sottrazioni successive. non immobile o primigenia o “autentica”: anche perché l’autoctono puro non esiste. Come non esiste un “terroir” identitario sicuro e definitivo, come per il vino. Gli umani – come le piante – hanno certo “radici”, ma insieme viaggiano, cambiano, sono ibridi, creoli, multipli, figli di molte generazioni e di molte culture e di infiniti incontri: influenzati dal sangue e dalla storia tanto quanto dal loro libero mutare, abitare, imparare. Non esistono quindi identità blindate o troppo ingombranti. L’Identità che esiste è invece lo specchio fedele di stratificazioni culturali secolari su un potente sostrato indigeno che fa da coagulo.
L’Identità cui si rifà Claudia Aru – almeno questo ho capito, assistendo ai suoi Concerti, ascoltando le sue canzoni e leggendo i suoi testi – opera come un meccanismo che genera atti contemporanei, inclusi pensieri e azioni, certo basati anche sulle esperienze del passato, ma nei termini accrescitivi di un confronto nel tempo perché è in quel confronto, in quello scambio intersoggettivo che trova la ragione la capacità di conservare ma anche di progettare e di accogliere e di proporre, di ricevere e di dare. Ciascuno è figlio della propria terra ma anche figlio del mondo intero. Occorre dunque partire dal “luogo della differenza” per riconoscerci e appartenerci e insieme da quel luogo, dal valore della diversità segnata da una storia dissonante e da arresti anche drammatici ma carica di significati millenari: ripartire, muovere per disegnare nel presente la nostra storia futura, il progetto della nostra terra.
L’Identità non è mai definitiva ma è da rielaborare continuamente. Da ricostruire in progress, secondo la logica del bricolage, nella dimensione di un grande blob che crea inedite adiacenze tra segni e simboli delle vecchie certezze e nuovi elementi mobili dai confini elastici. La purezza infatti è l’unico ingrediente che non dovrebbe mai entrare nella composizione del concetto di identità. Hitler che era nostalgico di quella famosa purezza della razza, perpetrò il più grande genocidio della storia. Essere identici significa essere unici: l’individuo è unico ma nello stesso tempo somiglia agli altri individui. La nostra diversità sta in questa unicità. Sappiamo da tempo che una identità chiusa e inaridita, perde il suo profumo e la sua anima. Un’identità è qualcosa che dà e riceve. In essa nulla è cristallizzato, definitivo. L’identità insomma è una casa aperta, che si ingrandisce e si arricchisce ogni giorno.
L’identità dunque non è un dato rassicurante e permanente ma è quella che diventa fatto nuovo, che interroga l’esperienza del tempo attuale, per affrontare il presente nella sua drammatica attualità, per definire un orizzonte di senso, per situarci e per abitare, aperti al suo respiro, il mondo, lottando contro il tempo della dimenticanza e della smemoratezza.
L’identità dunque si vive, nel segno della contaminazione, del contatto e della creolizzazione e, insieme,dell’appartenenza. L’identità è quella che si trasforma in questione operativa: che diventa progetto e l’appartenenza diventa storia, caricandosi di vita, suscitando conflitti, impegnandosi con le lotte a trasformare il presente e costruire il futuro.
Si muove sulla medesima dimensione la sua musica: antica e moderna insieme. Ricca di contaminazioni e ibridazioni. Come i suoi testi in cui fa ressa la tradizione e l’innovazione: tradizione vissuta e considerata – per usare il fulminante aforisma di Gustav Mahler, grande compositore austriaco “come e rigenerazione del fuoco e non come venerazione delle ceneri”.
La caratteristica fondamentale di Claudia Aru è però l’ironia: quell’ironia che Lussu sosteneva essere “atavicamente sarda”. Emerge sempre nei suoi spettacoli e nei suoi Concerti e nelle sue canzoni: ma segnatamente quando utilizza la variante campidanese della lingua sarda. Perché essa s’impernia su una abitudine canzonatoria e ironica: meno sonora e sostenuta del logudorese, si presta infatti maggiormente alla beffa e al rapido motto.
Essa infatti già di per se stessa risulta particolarmente adatta per esprimere la satira, il comico, l’ironico, il giocoso. Forse perché lo stesso dizionario di immagini, lo stesso lessico dei modi di dire e di schemi figurativi possiede già al suo interno idee e impressioni e suoni atteggiati dall’anima popolare nella forma del paradosso, della battuta, della satira.
Questo spiega – fra l’altro – perché in sardo-capidanese sono state prodotti capolavori come “Sa scomunica de predi Antiogu” e testi teatrali memorabili come “Bellu schesc´e dottori” di Emanuele Pili o “Ziu Paddori” di Efisio Vincenzo Melis.