Tappa finale: dalla Sardegna all’America del Nord
1 Giugno 2024In una ciotola di calcare trovata a Nevalı Çori (Göbekli Tepe in Turchia) due figure danzano con un animale, forse uno spirito guida. Foto: Vincent J. Musi / NGS
[Marinella Lőrinczi]
1. Esaminando le schiere di animali – di fenicotteri in particolare – incisi in bassorilievo sulle stele del sito sacro neolitico, scavato a partire dalla fine del secolo scorso a Göbekli Tepe (Anatolia, Turchia, cca. 10.000 a.C.), si può immaginare e supporre che gli animali – se considerati nocivi, pericolosi per l’uomo o aggressivi – fossero rappresentati (così sembrerebbe) in un atteggiamento organizzato e bellicoso(infatti, tutti gli animali sono rivolti nella stessa direzione).
Frammento di stele nel sito neolitico di Göbekli Tepe:
fenicotteri e serpenti acquatici in schiere fitte, e al centro una volpe.
E si deve supporre che, in maniera complementare, le raffigurazioni potessero fungere da supporto non solo alle normali chiacchiere e ai commenti collettivi, ma anche e soprattutto ad azioni rituali accompagnate da testi tradizionali orali, recitati, declamati o cantati, individualmente o collettivamente.
Questo per quanto riguarda gli straordinari bassorilievi neolitici presentati a https://www.manifestosardo.org/i-fenicotteri-piu-antichi-del-mondo/ (8.2.2024), dove molti trampolieri sono stati identificati da chi scrive come fenicotteri per ragioni morfologiche, di postura e di convivenza in grandi gruppi; tali caratteristiche erano state lungamente osservate negli stagni sardi meridionali di restrospiaggia, e descritte in relazione alle reazioni e agli atteggiamenti che gli umani hanno manifestato e manifestano nei loro confronti.
2. Ho avuto l’ardire di interpretare anche la sistemazione dei vari gruppi di statue megalitiche dell’Isola di Pasqua (Rapa Nui = “grande isola”), rivolte nella stessa direzione, come rappresentazione di una volontà collettiva ancestrale espressa con fierezza marziale (v. https://www.manifestosardo.org/dallisola-di-pasqua-allanatolia-sorvolando-la-sardegna/,1.5.2024), tesa a seguire con attenzione le sorti dei discendenti (che poi per tale ragione realizzavano le statue corrucciate).
Esempio di schiera di statue, dette moai in pasquense.
Le narrazioni, o anche confidenze, condivise dai nativi pasquensi con gli studiosi empatici, avevano evidenziato, infatti, il ruolo protettivo attribuito agli antenati o a certi capi storici, ruolo incorporato successivamente nelle statue gigantesche (che furono scolpite ed erette, si ricordi, nella prima metà del secondo millennio d.C.). Questo è quanto riferiscono gli studiosi.
Ma l’arte pasquense è ancor più ricca ed affascinante. I petroglifi pasquensi (incisioni su roccia, v. ad es. qui: https://centroderecursos.educarchile.cl/handle/20.500.12246/38689), figurativi per la maggior parte, insieme con i bassorilievi scolpiti sul dorso delle immense statue moai (v. l’articolo di JoAnne Van Tilburg, 2021), farebbero parte di un sistema grafico complesso e interrelato, specifico dell’isola. Sistema grafico rappresentato al meglio, quasi certamente, dal grafismo pittografico/ideografico lineare e bustrofedico inciso/realizzato su supporti facilmente trasportabili e pure ‘tascabili’ (pezzi di pietra o tavolette di legno).
Quest’ultimo tipo di grafismo, anzi di scrittura, è detto in pasquense rongorongo, parolachesignificherebbe “linee scritte da recitare, declamare, cantare”, “messaggio”, “recitare, declamare, leggere cantando”. Vocabolo semanticamente affine a tumpituxwinap, che nella lingua dei nativi nordamericani Paiute indica certi petroglifi potenzialmente ‘narranti’ e che significa “rocce istoriate” (https://www.nps.gov/articles/seug-rock-markings.htm).
Esempio di rongorongo. Fonte:https://www.indaginiemisteri.it/rongorongo/#552dec71-27c0-4c0c-bb0d-2bdecf693cd9-link. Vedi anche https://it.m.wikipedia.org/wiki/File:Rongorongo_C-a_Mamari.jpg.
Nel loro insieme i pittogrammi/ideogrammi rongorongo, realizzati e giustapposti lungo una linea ideale serpentiforme che parte dalla sinistra in basso, formerebbero dunque dei testi, ai quali corrisponderebbe un “contesto orale” avvolgente, come suggeriva nel 1964-1965 il famoso paleoantropologo francese André Leroi-Gourhan (1911-1986) occupandosi di manifestazioni grafiche (arcaiche e moderne) di tipologia simile (https://www.filosofiprecari.it/wordpress/?p=3267, 2013). Tale “contesto orale” va immaginato come multidimensionale nello spazio-tempo, oscillante tra il formale/solenne (degli iniziati) e l’informale/commentato (della gente comune), nonché a trasmissione e diffusione intergenerazionale, come la stessa lingua.
D’altronde il significato del termine rongorongo è inequivocabile a tal riguardo: si tratta di segni grafici, di glifi, da tradurre in manifestazioni verbali sebbene nessuno conosca più il senso racchiuso nei (di)segni, da chissà quante generazioni. I rongorongo raccontano oppure stimolano una narrazione o il canto. Ma questo andrebbe detto al condizionale passato. Per ora e per noi sono ancora ‘muti’.
I risultati delle prime verifiche in laboratorio compiute su di una tavoletta di legno – una delle non molte ancora esistenti e sparse nei musei – al fine di determinarne l’età, sono stati pubblicati nel 2005: il supporto ligneo venne datato agli anni 1680-1730 (https://es.wikipedia.org/wiki/Rongo_rongo#Identificaci%C3%B3n_bot%C3%A1nica_y_antig%C3%BCedad), periodo che precede comunque di decenni l’arrivo degli spagnoli sull’Isola di Pasqua. Ricerche più recenti, proseguite ovviamente sulla scia delle precedenti, datano un altro reperto addirittura agli inizi del secolo XVI (v. https://www.bbc.com/mundo/articles/c03r86yj98vo). Il corpus delle testimonianze sopravvissute di rongorongo, sparse per il mondo, è presentato qui: http://kohaumotu.org/rongorongo_org/corpus/1.html. Da consultare!
Nella ricerca scientifica nulla nasce dal nulla assoluto. Sull’origine o sulla matrice non europea del rongorongo circolavano idee e teorie già dalla metà, all’incirca, del secolo scorso. Come riportavo altrove, e lo ripeto ben inteso seguendo sempre gli approfondimenti di altri, “già dagli anni ’50 si pensa ad un’origine polinesiana o anzi, successivamente, autoctona del rongorongo e non ad una attività o capacità scrittoria stimolata da spagnoli – quindi da europei – giunti sull’isola nel 1770 (se ne leggano i dettagli in https://www.nomos-elibrary.de/10.5771/0257-9774-2011-2-439.pdf , 2011, pp. 445-6, 458-9)”.
3. Mi è ricapitato tra le mani, da poco, il volume realizzato e introdotto dall’antropologo Giovanni Pizza, Miti e leggende degli Indiani d’America (Grandi Tascabili Economici Newton, 1996). Esso riguarda i nativi del Nordamerica. Nella parte intitolata Sul sentiero di guerra (pp. 145 sgg.), che contiene naturalmente racconti di guerra – “genere narrativo di grande rilievo” presso quegli Indiani -, a p. 130 viene riprodotta una raffigurazione di scene di guerra e complessivamente di un campo di battaglia, dipinti su di un telo per ricoprire e proteggere il tipì (che è una tenda-abitazione degli Indiani); il che implica che il materiale per realizzarlo deve essere robusto e impermeabile.
La riproduzione del telo illustrato proviene da un classico degli studi intrapresi su quelle determinate popolazioni che è Indians of the Plains dello statunitense Robert Harry Lowie (1883-1957), New York, 1954, McGraw – Hill Book Co. per conto dell’ American Museum of Natural History, p. 110 (leggibile a https://archive.org/details/indplains00lowi/page/ 110/mode/1up):
A p.134 della monografia di Lowie (nel cap. dove si parla della pittura su pelli) viene a giusta ragione evidenziato che “La pittografia [messa in opera anche per questi teli da tipì] andrebbe considerata come un mezzo di comunicazione anziché come espressione di un impulso artistico. E’ indubbio che i dipinti realistici osservabili sull’abbigliamento o sulle coperture dei tipì … servissero soprattutto per registrare eventi significativi nella vita del loro proprietario …” (Pictography might be regarded as a means of communication rather than as an expression of the artistic urge. It is certain that the realistic pictures on robes or tipi covers drawn by the Indians served mainly to record significant events in the owner’s life …). Questa affermazione è ancor oggi più che valida ed esplicativa e chiara, ma – come si suggeriva prima – avrà avuto anche essa degli antecedenti, ad es. in Garrick Mallery (1831-1894), Picture-writing of the American Indians, Washington, Government Printing Office, 1894, 822 pp., studioso citato da Lowie; Mallery a p. 26, ricordando a sua volta altri prima di lui, riporta come “[Francis] Bacon [1561-1626] well said that pictures are dumb [mute] histories, and he might have added that in the crude pictures of antiquity were contained the germs of written words.”
Come è facile osservare sul telo per tipì di Lowie, soprattutto dalla posizione dei cavalli e dei muli (ben distinguibili gli uni dagli altri), la schiera degli attaccanti è rivolta nella stessa direzione; né potrebbe essere diversamente considerando il punto di vista e il coinvolgimento nell’evento di chi ‘narra’ dipingendolo o disegnandolo. L’analogia figurativa con le due prime opere sopra riprodotte (stele anatolica e statue pasquensi) è quindi abbastanza evidente, trattandosi ugualmente di raffigurazioni di gruppi coesi organizzati e aventi un obiettivo comune (ipotizzato o testimoniato). Senza dimenticare, rivolgendoci a culture e periodi diversi, che anche le orme di piedi diretti nella stessa direzione sintetizzano probabilmente, in una visione diremmo minimalista, (la storia del)l’avvicinamento ad una meta importante (esempi nel menzionato Mallery, tra le pp. 56-57).
Nel terzo caso, del telo per tipì, assistiamo alla rappresentazione di una battaglia vera e propria, non solo intenzionale, per di più di recente memoria. Pertanto quest’evento bellico è stato raffigurato attraverso tanti episodi simultanei e in sequenza, come su di una scacchiera oppure su una tavola di wargame (concreta o digitalizzata).
Lowie aggiunge subito dopo, e documenta, ciò che nei precedenti due casi di grafismi (delle stele neolitiche e del rongorongo)è solo ipotizzabile: anche solo riflettendo sul chiacchiericcio umano – vissuto e sperimentabile da tutti noi -, ossia su quell’oralità comune che rilascia un sedimento narrativo e/o, al contrario, lo rielabora (argomento, quest’ultimo, di cui mi ero già occupata altrove).
Infatti, Lowie registrò o rese in inglese i significati fondanti, ovvero i nuclei narrativi dei singoli episodi bellici rappresentati sul telo e composti a loro volta da gruppi/insiemi coesi di pittogrammi (o anche semasiogrammi, segni del significato, che rimandano al significato). A dimostrazione del fatto che i gruppi pittorici servivano come promemoria o spunto per racconti più articolati ma vincolati dal significato delle figure, racconti che in condizioni di parità sociale erano commentabili anche dagli ascoltatori:
E’ facile rendersi conto, anche solo pensando all’esperienza di tutti noi, infantile e adulta, che sul piano tipologico (non cronologico) – ripeto: tipologico – queste (come tantissime altre, note o non) sono manifestazioni della comunicazione umana che precedono e preannunciano i testi e i libri illustrati di sempre e la fumettistica degli ultimi secoli.
Le componenti figurative dei fumetti sono realizzate soprattutto con la tecnica dell’incisione (quelle premoderne) o del disegno (quelle moderne; per le modernissime esistono specifici programmi digitali grafici); le immagini, le figure sono accompagnate da didascalie, da commenti, da voci dei personaggi o da dialoghi trascritti, relativamente autonomi linguisticamente rispetto al supporto figurativo in generale (nel senso che anche solo leggendo il testo scritto, oppure partendo dal testo, spesso è possibile immaginare la scena raffigurata). Queste opere grafico-scrittorie (da vedere e da leggere sincronicamente) hanno tipologicamente radici che attraversano la storia dell’umanità.
Le numerose wikivoci su Fumetto, Comics, Bande dessinée, Historieta ecc. presentano e illustrano – per l’appunto – in varia maniera anche la preistoria e la storia di ciò che è da considerasi come l’antenato del fumetto per come si presenta dal Settecento in poi. Vale la pena di dar loro un’occhiata.
4. Conclusione. Quanto descritto e illustrato nei primi due capitoli rientra quindi in questo percorso plurimillenario durante il quale la rappresentazione grafico-iconica e il corrispettivo testo orale (trasformabile in grafico-scritto) si fondono e si separano in una continua ricomposizione della loro organizzazione gerarchica. L’esempio ritrovato nella monografia di Robert H. Lowie di settant’anni fa (che non è inserita nella bibliografia di A. Leroi-Gourhan, 1964-1965, di dieci anni posteriore a Lowie) illustra alla perfezione il processo o il momento di fusione – sul piano tipologico e non nell’andamento cronologico – tra figurativo e detto, narrato (e successivamente registrato, riportato, tradotto, messo per iscritto).
Altri approfondimenti riguardanti la storia della scrittura, nell’ottica di cui sopra: https://edizionimaestrale.it/prodotto/dal-brusio-delle-voci-al-coagulo-micronarrativo/, 2015; https://people.unica.it/mlorinczi/files/2007/01/hommagemmm2.pdf, 2009; https://people.unica.it/mlorinczi/files/2012/10/13.MMM-LORINCZI-illustrazioni.pdf