Outlet
1 Maggio 2010Natalino Piras
Astores, il paese dove faccio l’insegnante precario è una finzione letteraria che tanti paesi reali mette ancora insieme. Io lo considero un outlet, un non-luogo che però è anche pregnante metafora di tante vite svendute e da vendere se è vero che letteralmente outlet potrebbe significare “punto di vendita”. Astores è pure un luogo che continua a dare immagine distorta del reale, dei propri fantasmi. È stato per secoli anello di una lunga catena di delinquenza secondo sociologi e antropologi di oggi e antropomisuratori di ieri, quelli di scuola lombrosiana. Oppure luogo di resistenza, secondo un’altra categoria di pensatori e storici che è tutta nostra senza che gli altri, coloro che non sono di qui, ce lo riconoscano: non riescono a vedere e capire cosa significa resistere in questa dura montagna. Ho provato a esplicare questo concetto al ristorante dei morti, nome con cui chiamo il “Pulcherrimus”, la taverna che frequentano l’ingegner Fulgenzio Braghi, ideatore del viadotto, un’utopia, che dovrebbe collegare in alturas il paese di Astores con Vetus, città ai piedi di una montagna di nebbie. Gli ho raccontato di un condannato a morte è fuggito di Bresson, del tenente Fontaine che riesce a fuggire dalla fortezza di Lione perché nella barbarie della Storia c’è forte dentro di lui un’esigenza di libertà, più forte di tutto l’orrore che ha visto e attraversato. Lo muove lo Spirito, il Vento, che souffle ou il veut, che soffia dove vuole.
Però Astores resta outlet, oltre tutte le nostre resistenze, un punto di vendita dove commerciano l’omologazione alle nostre attese di un tempo che apparentemente si trasforma ma rimane fermo. Il Vento del condannato a morte qui non riescono a impacchettarlo né imbustarlo e venderlo a pezzi con il numero di serie. Qui il vento è freddo e gelido continua a risalire mugghiando dal basso della valle, dove non sembrano finire mai le fondamenta del viadotto, l’utopia di Fulgenzio Biraghi. I piloni di sostegno sembrano piramidi egizie e viene da pensare a chi sa come in quelle loro punte sarà possibile far poggiare altri piloni, se reggerà il calcolo dell’ingegnere. Lui è sempre fantastico, immaginifico. Sembra che Astores, che pure conobbe assedi e truppe d’assalto dentro l’abitato – che facevano posti di blocco in ogni vicinato e arrestavano tutti a una catena lunga, l’intero paese – sembrava che ad Astores fosse difficile dissipare questa memoria del conflitto perenne con le forze dell’ordine, “carne venduta”, merce di un altro Stato. Eppure anche questo dissipano l’outlet e le sue trasformazioni.
Ora sono diretto da un outlet a un altro outlet. Sto portando all’ospedale di Vetus maestro Pecus che ha avuto un calo pressorio e invece di avvisare la famiglia il preside Tzoloppe ha voluto che lo accompagni io. Pecus che trema tutto sotto la coperta che Tzoloppe gli ha fatto buttare addosso prima di partire e la grazia con cui il bidello Ballacaminos ha eseguito è quella di chi butta un sacco sopra i morti ammazzati.
Anche il pronto soccorso dell’ospedale di Vetus è un outlet, un purgatorio che si trasforma in inferno. Guai agli sventurati che lo devono attraversare.La direzione sanitaria della Asl non riesce a dare a dare un ubi consistam, come luogo fisico, al pronto soccorso. Lo spostano in continuazione da un blocco ad un altro del piano terra del palazzo-ospedale che sembra la rinascita di una delle due torri gemelle abbattute l’11 settembre del 2001. Superata la sbarra, detto e mostrato il motivo a una guardia, imbocco una rampa in salita incassata tra lamiere a protezione di lavori in corso e una barriera tinta a giallo fresco che dà su un baratro di sabbia. Al culmine, mi trovo davanti una basculante che si apre da sola salvo scoprire subito che c’è un’altra guardia giurata ad azionare il telecomando. Esce fuori da un gabbiotto nero-grigio che sembra la taverna della Malanotte. La guardia giurata non sorride ma neppure domanda. Solo avverte che la macchina, “una volta scaricato il signore”, bisogna portarla via. Pecus continuava a tremare e gli danno il codice giallo. Lo mettono su una carrozzina. Dicono che chiameranno quasi subito e lei chi è che lo accompagna, ché altrimenti non può stare. Dovrei considerarmi un privilegiato. Le porte in alluminio anodizzato a bianco cremoso si aprono al nostro passare previo spingimento di un pulsante rosso attaccato al muro. Pecus è di faccia malarica ma gli occhi continuano a essere oltremodo spalancati. C’è odore di ospedale, quello di sempre prima del tempo dell’outlet, di minestra e medicine, un rancido tenue a mischio di alcol, contenuto tra muri color senape, pallidi gialli maionese e grigi come la tonaca delle suore vincenziane di un tempo, quelle con le corna che spuntavano dal velo. Approdiamo alla stanza delle barelle dove c’è già tanta altra gente in attesa. Pecus aumenta di tremore. Non gli basta neppure una coperta e poi un’altra messagli addosso. Mi sento un poco un ridicolo san Martino nel privarmi del montgomery nuovo che tengo in braccio e che con un poco più di grazia di Ballacaminos butto sopra il corpo sofferente del collega. Ma il pronto soccorso dell’ospedale di Vetus continua a rivelarmi il suo essere outlet, una bolgia di voci e grida e urla separate che si alternano a subentrati tempi di silenzio. Prima non era così. Non c’era esasperazione nell’attesa. Bastava il dolore. La gente che va e viene in carrozzina e barelle, seduta e supina, coperta o meno da un lenzuolo bianco, in scarponi o a piedi scalzi, intubata o a braccia libere, elettrodi applicati alle caviglie, con flebo e ossigeni, tutta questa umanità dolente e ferita, portata e spinta da infermiere e infermieri in camice bianco, in divisa verde come i muri, tute rosse di Vos e Croci azzurre, tute arancione di 118, ancora tute di rosso più acceso degli addetti alle pulizie e alla distribuzione del cibo, in testa una cuffia trasparente, tutta questa gente portata e spinta da mani e facce pietose, solidali e indifferenti, da famigliari e parenti sani e ubriachi, da automobilisti feriti, tutta questa gente aspetta che la visitino, che la ricoverino, che gli diano referti di prelievi, di elettrocardiogrammi, di rx, di eco, che la chiamino una seconda e terza volta dopo la prima, una buona parola almeno, in tutta questa gente c’è chi è qui dall’inizio del pomeriggio, un’ora, due, tre quattro ore fa, dalla mattina alle nove, alle sette e mezza, portata qui dalla città, dai paesi del circondario, dalla costa orientale e da quella occidentale. Tutti con il loro carico, di sofferenza, di carica aggressiva, di follia. Vedo e sento Pecus pregare il suo angelo, battere ancora i denti per il freddo e mi dice che ha i piedi congelati ma prega e recita l’atto di dolore come un tempo ci insegnarono al catechismo. Pecus sta male e io allerto un infermiere grande e grosso che altro non fa che aggiungere una coperta sopra il mio montgomery. Ma non lo chiamano. Afferro al volo e affronto a denti stretti una dottoressa dai capelli corti a dalla faccia antipatica, schiacciata come quella di una civetta. “Il mio collega sta per morire”. Così la risposta: “Sì, come tutti quelli che vede qui intorno. Cosa ci posso fare io?” “Ma lei non è qui per alleviare, anche per alleviare la sofferenza?” “Bisogna che sopporti, caro signore. Che codice ha il paziente? Giallo? Allora la chiamiamo quasi subito, presto”. Ed entra nell’ambulatorio numero 4 dopo essersi ben premurata di chiudersi la porta alle spalle. Il presto si allunga. Ma Pecus sta male e quando arriva il turno ha smesso di tremare e digrignare i denti. Ha ceduto. Sembra morto. Ci pensano urla ubriache a farlo rinvenire. Pecus sta male. Ma non c’è posto per lui in questo outlet. Me lo riconsegnano e lui sale in macchina con i suoi piedi. Chiede che lo riporti ad Astores, alla dura montagna. È buio e pioviggina, acqua fredda.