The Substance: il prezzo della ricerca smaniosa e ossessiva di una perfezione pretesa e impossibile
4 Novembre 2024[Francesca Pili]
In una società che è sempre più schiava della ricerca spasmodica della bellezza estetica e della giovinezza eterna a qualunque costo, The Substance, della cineasta francese (è regista, sceneggiatrice e montatrice) Coralie Fargeat, è una pellicola attuale come non mai.
Tutto inizia con un’inquadratura dall’alto di un uovo senza guscio sopra una superficie piana, al cui tuorlo viene fatta un’iniezione, in conseguenza della quale il tuorlo si separa, e si divide in due tuorli, allegoria e preludio di ciò che sarà.
Nella sequenza successiva, nella stessa identica posizione, con la medesima inquadratura, all’uovo si sostituisce la stella di una diva nella Walk of Fame.
È un film certamente non banale.
Molto disturbante, angosciante, deciso, esplicito. Potrebbe risultare perfino eccessivo, da un certo punto in poi, soprattutto nella sua componente splatter. La qual cosa, non certo a sorpresa, può creare fastidio a una parte del pubblico; e, infatti, quantomeno stando alla lettura di vari commenti di gente che non è riuscita neanche a finire di completarne la visione, abbandonando prima la sala, è esattamente ciò che è accaduto.
Ma io credo che questo non sia un difetto: il tema trattato, anzi, i temi trattati, perché non è uno solo, sono tutt’altro che semplici, sereni, comodi, rassicuranti; e trovo assolutamente azzeccato trasporli su pellicola e trattarli in maniera cruda, esplicita, importunante, ripugnante, che ci impedisca di non vedere, di – far finta di – non capire, di non sentire.
A meno che, per l’appunto, non scegliamo di voltarci dall’altra parte, di scappare.
Per questa ragione, più che eccessivo, lo definirei estremo, provocatorio, stimolante.
Un film che è tante cose.
È al contempo un fantascientifico body horror, una commedia dark, un thriller psicologico, un film di critica e satira sociali dal respiro femminista, una favola distopica, cruenta, truculenta, con una morale ma mai moralista (infestata da specchi e sguardi, che ci rimandano il mostruoso, anziché da fantasmi e spiriti).
È una sorta di ritratto di Dorian Gray in salsa cronenbergiana (tanti sono gli omaggi al regista canadese: da Videodrome, a The Fly, passando, ovviamente, per Dead ringers –Inseparabili), e un viale del tramonto (Sunset Boulevard) di ispirazione wildiana, con un sentore di Zemeckis (Death Becomes Her, rititolato come La morte ti fa bella per il mercato italiano), un bel po’ di Lynch (The Elephant man; Mulholland Drive; Lost Highway – Strade Perdute), più che un pizzico di Hitchcock (Vertigo, conosciuto in Italia come La donna che visse due volte; Psycho), una certa quantità di Kubrick (impossibile non notare il tributo agli iconici spazi di Shining: Fargeat, coadiuvata nella realizzazione dal sapiente lavoro dello scenografo Stanislas Reydellet, si ispira e rende omaggio ai modelli geometrici e alle prospettive claustrofobiche di Kubrick, per creare un’estetica che suggerisce qualcosa di oscuro e sbagliato; le tinte arancioni e rosse ricordano la celebre moquette dell’Overlook Hotel, ma con uno sguardo personalissimo: le forme rettangolari dei tappeti in The Substance, infatti, sono spezzate, richiamando la dualità di Elisabeth e Sue, così come l’illusione di perfezione spezzata che domina tutto il film), Ridley Scott (con la saga di Alien), perfino una rivisitazione (ancor più) distopica e gustosamente sarcastica di Cenerentola (il vestito di Sue, a un certo punto del film, richiama piuttosto fedelmente quello della Cinderella disneyana; solo che, qui, mentre corre via, non perde una scarpetta, ma un dente – e poi altri, e poi altro), ovviamente, specie sul finale, Tsukamoto (con Tetsuo) e Brian Yuzna (e il suo Society).
Coralie Fargeat ci guida in un viaggio allucinato e visivamente disturbante.
Ci costringe a guardare in faccia, così come sono, senza alcuna edulcorazione, senza alcuna rassicurazione, senza alcuna censura, le nostre paure, le nostre ossessioni, le nostre manie, le aspettative morbose, mostruose, fagocitanti, che la società in cui viviamo hanno su di noi e hanno creato in noi, che le respiriamo e cominciamo a introiettarle sin dall’infanzia.
Ce le sbatte letteralmente in faccia.
Ci disturba, ci importuna, ci butta fuori dalla nostra cosiddetta e stra-abusata zona di comfort, ci mette in mano un pennarello indelebile per tracciare un nuovo solco nella nostra coscienza. Libera i nostri demoni, come in una sorta di rito ancestrale, sguinzaglia – senza pudore, né ritegno, né contegno, né limiti – tutte quelle parti del femminile considerate mostruose, e, per questo, inaccettabili, dalla società, che siamo state educate a combattere, e, se e quando non possiamo, perlomeno a nascondere, per essere accettate, benvolute, amate: quelle che vengono considerate imperfezioni, la vecchiaia.
È una critica sociale alla cultura e alla società patriarcali, paternaliste, maschiliste e misogine nella quali ancora nasciamo, cresciamo, viviamo, a ciò che pretendono preminentemente da noi donne; è una critica al cosiddetto “male gaze”, lo sguardo maschile, la prospettiva maschile (meglio: maschilista), specie a quella degli uomini considerati di potere, mediocri, grotteschi, loro sì invecchiabili senza particolari problemi e patemi, che prosperano perché e finché è loro concesso da un contesto complice, da un terreno fertile millenari, alla violenza con la quale si impone sul corpo, sulla vita delle donne, al dolore che ci provoca, al male che fa (rappresentato, in The Substance, soprattutto, dal volgare, grottesco, molestissimo, insopportabile, efficacissimo Harvey – guarda caso, come Weinstein –, impersonato grandiosamente da Dennis Quaid; icastica la scena, sulla quale Farget indugia non a caso, con primi e primissimi piani, in cui mangia in maniera disgustosa, ributtante, dei gamberi in salsa rosa, mentre parla, o, meglio, cerca di non parlare, ma di scaricare senza troppe parole dal suo programma tv, senza perderci troppo tempo, Elisabeth): una cultura, una società e uno sguardo, questi, che insegnano, inculcano, promuovono, incentivano, sin dal primo vagito, anche e proprio la competizione e la rivalità tra donne (che è, infatti, un’altra delle questioni legate ai temi trattati nel film), anziché la solidarietà, la collaborazione, l’alleanza, la compagnitudine, la sorellanza, perché le prime tengono in piedi e nutrono la suddetta cultura, la suddetta società e il suddetto sguardo, mentre le seconde, propugnate, di contro, dai femminismi, toglierebbero – tolgono – agli stessi linfa vitale, potere, renderebbero – rendono – il terreno nei quali continuano a proliferare meno fertile, confererendo, invece, forza, potenza, maggior possibilità di autodeterminazione, di liberazione e di libertà alle donne.
Il film è pure una critica affilata alla positività tossica, da esibire sempiternamente e ad ogni costo, alla performance continua a favor di società e, soprattutto, di social, alla ricerca di un canone estetico e di un’ideale di perfezione digitalizzata e distorta impossibile da raggiungere nella realtà; temi che si intersecano perfettamente con quello, succitato, dell’invecchiamento.
È un film, quindi, che parla di sessismo, di ageismo e di violenza di genere.
Un film che si sofferma su e che sviluppa il tema dell’identità, della costruzione della stessa, dei pesanti condizionamenti che la società e lo sguardo altrui hanno sulla stessa, e sulla sua fragilità e la sua farraginosità, il terrore e l’odio per sé stessi, e, soprattutto, per sé stesse, che, inevitabilmente, accompagnano un’identità costruita a favore dell’altro, di ciò che è esterno da noi, del concetto di visibilità, di successo, di carriera, di fama, di merito e meritocrazia, come (im)possibili in questa società, anche.
È un film che parla di solitudine estrema, di un’esistenza nella pressoché totale assenza di affetti, di amore, di intimità reale, di un qualsivoglia tipo di relazione profonda e approfondita con chicchessia, e che vede, anzi, i rapporti come una minaccia, un pericolo, perché votata completamente alla costruzione, prima ancora che di una carriera, di un’immagine pubblica, e mediatica, al raggiungimento e consolidamento di ciò che viene identificato come successo, fama, all’apparenza, a ciò che è mera superficie.
Coralie Farget, regista, sceneggiatrice e montatrice, donna, femminista, in buona parte del film sceglie appositamente di adottare lo sguardo maschile e maschilista di cui sopra, per farlo esplodere e lasciar emergere la sostanza orrorifica e disgustosa di cui si nutre e che continua a tenerlo in vita.
The Substance è un oggetto ambiguo, difficile da classificare, perché riprende temi classici, ma li tritura nell’avanguardia pura.
È un oggetto paradossale, perché è un body horror, ma dalla superficie patinata, uno splatter che potrebbe andare sulla copertina di Vogue (che, in una scena del film, infatti, viene anche citata), un film certamente non essenziale, né minimalista, ma, al contrario, ridondante, saturo, pieno zeppo di cose.
In ogni caso, ben consapevole di quel che fa: sa come piacere esattamente quanto sa come ripugnare, attrae lo sguardo dello spettatore, della spettatrice, dellə spettatorə coi suoi corpi perfetti, lisci e lucidi come un filtro Instagram, per poi respingerlo violentemente con immagini pensate e costruite appositamente per repellere e disturbare.
È un film, nella forma e nello stile, insomma, in apparenza, sfacciatamente pop, che è poi, però, pure un profondo atto d’accusa proprio alla superficialità della società dell’immagine, e lo fa indugiando ossessivamente sulla pelle e infilandosi a fondo nei corpi che inquadra, dai quali sembra più facile tirar fuori cataste di organi interni che un’anima o una coscienza (ma che, nei rari momenti, poco più che frazioni di un secondo alla volta, in sequenze e mai in scene intere, nelle quali queste si intravedono, sotto la superficie, te ne accorgi, le scorgi, le capisci).
The Substance è un’esperienza visiva e sensoriale unica che, nonostante duri più di due ore, non molla il colpo per un istante; è un’opera certamente drammatica, ma anche colma di amarissima ironia, di sarcasmo e satira, è sardonico e mordace; è un film titanico, che senza dubbio non disdegna il botteghino, ma che, al contempo, non ha paura di disgustare lo stesso pubblico che attrae.
Ogni inquadratura (spesso e volentieri sferoidale, orbitale, grazie a un uso sapiente di grandangolo e fisheye, e un utilizzo talvolta morboso ma assolutamente funzionale, preciso, calzante, dello zoom, che regala molti primi e primissimi piani, e con una funzione chiaramente narrativa, che deformano, per renderla in maniera perfettamente, icasticamente inquietante, nella sua mostruosa autenticità, la realtà, e lo sguardo, gli sguardi, rendendoli a volte profondi, taglienti, chirurgici, a volte sfasati, non normati e non canonici, persi, spaventosi, terrorizzati e/o terrorizzati, mostruosi, altre volte canonici e sterotipici) è una meraviglia di bellezza o di bruttezza in alta definizione, dosa sapientemente equilibri e disequilibri, ed è giocata ora sulla simmetria e sulle simmetrie perfette, ora sulla loro assoluta antitesi.
Le musiche e le sonorità incalzanti, a tratti ammalianti, ma molto più spesso ansiogene, disturbanti, angoscianti, composte da Raffertie, al secolo Benjamin Stefanski, compositore e produttore britannico, accompagnano avvenimenti, emozioni e conflitti, interiori ed esteriori, della protagonista e della sua altra ego, l’altra sé alternativa e fagocitante, e consentono a ritmo e narrazione di compenetrarsi e di procedere in disarmonica e tachicardica armonia e in imperfetta simbiosi.
I costumi, il trucco e gli effetti speciali – a causa dei quali, i corpi di Demi Moore e Margaret Qualley si sono dovuti confrontare con il silicone, l’argilla, la plastilina, varie forme di prostetica, body suits di lattice, patendo modalità spesso difficili e traumatiche, in perfetta linea, quindi, con i temi trattati –, che denotano la e risentono della totale avversione di Fargeat nei confronti della CGI, sono testimoniati, i primi dal lavoro della costumista Emmanuelle Youchnovski, e gli altri da quello di Pierre-Olivier Persin, make-up artist e designer, e sono le gustosissime e, soprattutto, le disgustosissime ciliegine sulla torta.
Ultime ma non ultime, appena citate poco sopra, le due attrici protagoniste, che danno letteralmente corpo e anima all’ex attrice ora matrice, Elisabeth, e alla versione alternativa di sé, Sue, che sono entrambe azzecatissime e superbe: Demi Moore, bravissima e coraggiosa (anche perché ha patito, per molto tempo, gran parte di ciò che viene denunciato in questo film, dal male gaze alle aspettative di eterna giovinezza e irrealistica perfezione, dagli stereotipi sessisti alla violenza fagocitante del successo a tutti i costi, nella società dell’immagine per eccellenza, quella dello showbusiness, oltre a una violenza sessuale in giovanissima età, tanto da ammalarsi, e con questo ruolo è un po’ come se vivisezionasse il suo passato e il suo presente, le sue fragilità, le sue paure, le sue ossessioni, affrontasse tutto insieme davanti a un obiettivo e, finalmente, li esorcizzasse e se ne affrancasse, si liberasse e rinascesse), incarna perfettamente il suo personaggio, regalando e regalandosi, molto probabilmente, l’interpretazione della vita; Margareth Qualley, che è sempre più brava, espressiva, magnetica, capace di rappresentare, di denotare e connotare perfettamente ogni stato d’animo ed emozione del suo personaggio anche solo con l’espressione degli occhi, con un mutare dello sguardo.
Forse, non è un film perfetto, The Substance, ma è senza dubbio un film importante, d’impatto, che sa dire chiaramente, con forza, coraggio e determinazione, ciò che ha deciso di dire, e che lascia il segno.
Uno dei film più belli e potenti di quest’anno.