La scuola da dentro

16 Gennaio 2025

[Amedeo Spagnuolo]

Non so a chi può interessare quello che accade all’interno delle nostre aule scolastiche, certo la maggior parte di noi lo sa già perché, a vari livelli, la scuola l’ha frequentata, ovviamente mi riferisco a quelle generazioni che hanno beneficiato dei vantaggi apportati dalla scuola dell’obbligo.

Comunque sia, mi sembra importante, per una volta, scrivere come se fossi un cronista che in maniera lucida e distaccata (almeno nelle intenzioni) cerca di raccontare a chi vive fuori dalle mura scolastiche ciò che accade dentro. Una volta tanto voglio approfittare del mio lavoro d’insegnante per far sapere, a tutti quelli che sono interessati, le reali dinamiche che ai nostri tempi si “scatenano” all’interno delle nostre aule scolastiche.

Dunque, almeno per quanto mi riguarda, la mattina, quando mi sveglio, quasi sempre intorno alle 6.00, sono accompagnato da una sottile ansia che con gli anni ho imparato a conoscere e gestire e che scaturisce da una preoccupazione che ho sempre avuto sin dall’inizio della mia carriera ovvero fare bene il mio lavoro o meglio farlo al meglio delle mie possibilità.

Affermazione piuttosto banale, mi direte, “non penserai di essere l’unico ad avere questa preoccupazione?”. E’ ovvio che sono consapevole del fatto che la maggior parte dei lavoratori della scuola e non solo, la mattina, quando aprono gli occhi utilizzano le loro energie fisiche e mentali per cercare di svolgere bene le proprie mansioni e sono altrettanto sicuro, nonostante tutto, che ciò accada perché l’uomo ha bisogno, per sopravvivere, di dare un senso alla propria esistenza e ciò può accadere, almeno nelle società moderne a “trazione” capitalistica, per la maggior parte delle persone, se svolgiamo la nostra attività in modo tale che possa regalarci qualche soddisfazione altrimenti la vita, di per sé molto dura, diventerebbe un vero inferno. Quindi dato per scontato ciò, dopo essermi sbarbato e “docciato” in compagnia della mia ansia e della mia pesantissima borsa di cuoio piena di libri, tablet e altro, esco di casa come un guerriero che si prepara alla battaglia. Si proprio così, il lavoro del docente non è per tutti e non ho alcun dubbio in proposito, l’esperienza ultra trentennale me lo ha insegnato, bisogna essere dotati di un misto di coraggio, empatia, metodo.

Per quanto riguarda la preparazione disciplinare può bastare una discreta conoscenza della propria materia. Non dico questo per svilire la conoscenza della disciplina, il fatto è che oggi l’insegnante si trova a dialogare con delle persone e lo ripeto persone! Che hanno in testa talmente tante cose inutili per cui entrare nel loro mondo è la prima grande difficoltà che chi insegna si trova ad affrontare. Ovviamente le cose inutili che riempiono la testa dei nostri alunni non sono, come pensano molte persone malate di “adultità”, il frutto della mente piatta e senza stimoli dei ragazzi, il fatto è che dopo decenni di consumismo alla fine il plagio si è realizzato e la maggior parte dei nostri alunni è giunta all’unica conclusione possibile: “consumo dunque sono”.

Tornando alla cronaca scolastica, dopo essere entrato in classe, accolto generalmente con affetto e calore dai miei alunni e dopo qualche simpatica battutina calcistica, mi accomodo sulla mia sedia e comincio a osservare i volti dei miei alunni. Ho sempre iniziato così le mie lezioni e l’ho fatto perché ho sempre pensato che prima di cominciare a parlare di Pirandello, Svevo, Kant, Hegel ecc. fosse necessario cercare di capire, ovviamente in maniera inizialmente superficiale, con quale stato d’animo i ragazzi che mi sono stati affidati hanno varcato la soglia dell’aula.

Ebbene, negli ultimi anni ho notato, all’interno delle mie classi, l’aumento delle facce tristi, si proprio così, con il passare degli anni i giovani volti dei discenti che hanno frequentato le mie lezioni si è incupito sempre di più. Io però non mi sono adeguato a ciò e sapete cosa ho fatto? Ho cambiato il mio metodo ovvero dopo la tradizionale spiegazione frontale dell’argomento del giorno e dopo la conseguente lezione partecipata, mi sono fermato e ho cominciato a chiamare alla cattedra quegli alunni/e che ritenevo fossero più cupi/e degli altri.

Ovviamente per fare ciò è necessario esercitarsi un po’ con l’empatia, ma se ci si impegna alla fine si ottengono ottimi risultati e come d’incanto i ragazzi cominciano a parlare di sé, del loro mondo e tu che sei il docente maturo che deve aiutarli a capire meglio come districarsi in questo porco mondo, per un attimo ti senti disorientato perché non sai nemmeno tu come si fa a districarsi all’interno di tanta complessità e ingiustizia. Poi però un po’ l’esperienza ti aiuta e ti accorgi che riesci a dire loro anche cose intelligenti con le quali riesci a solleticare la loro curiosità.

Mentre però ti sembra che stai facendo abbastanza bene il tuo lavoro ecco che dal banco si alza la ragazza che tra qualche mese dovrà diplomarsi che, con le lacrime agli occhi e in preda a una evidente crisi di panico, ti chiede di uscire. A quel punto devi ricominciare da capo, cercare di trovare il modo di parlare con la ragazza con le lacrime e provare a dirle qualcosa che la convinca a stare meglio oppure convincerla a farsi aiutare da qualcuno. La situazione si complica quando ti trovi a dover lavorare in una cosiddetta classe “difficile”. Le ragioni di queste difficoltà sono tante. Ve ne racconto alcune che ho dovuto affrontare durante il corso della mia carriera. In alcuni casi siamo noi insegnanti ad essere maggiormente responsabili delle difficoltà che nascono all’interno di alcune classi.

Qualche anno fa mi capitò, ad esempio, una classe nella quale, non so perché, ero convinto di poter superare le criticità che si presentavano in essa adottando un metodo che dopo quell’anno buttai alle ortiche. Lo stile che usavo durante le mie spiegazioni era poco chiaro, monotono o troppo tecnico e tutto ciò rendeva difficile mantenere l’attenzione degli alunni e favorire la loro comprensione dei concetti. A tutto ciò si aggiungeva il fatto che la classe era rumorosa, disorganizzata e composta da molti studenti poco motivati che si distraevano molto facilmente.

Tutto questo portava, inevitabilmente, a non rispettare le regole basilari della convivenza scolastica che causavano conflitti tra me e gli studenti. Insomma quello era stato un anno difficile anche perché stavo attraversando uno dei periodi peggiori della mia vita e, nonostante la professionalità, inevitabilmente, le nostre vicende extrascolastiche condizionano anche il nostro modo di stare in classe. Devo dire però che l’esperienza mi ha insegnato che una classe difficile non è necessariamente negativa poiché può indurre il docente che ha un minimo di empatia a modificare il suo metodo.

Fu proprio quello che accadde a me, mentre per gli studenti può rappresentare un’opportunità per sviluppare capacità di problem – solving, resilienza e autonomia ovviamente se sono accompagnati da un docente disponibile a fornire il supporto necessario per affrontare sfide così impegnative.    

Nell’immagine: un murale che rappresenta il connubio tra partecipazione, arte e bellezza. Lo hanno chiamato Akapiàus (in Sardo campidanese significa “legàti”) e rappresenta oltre un anno di lavoro dei bambini e dei ragazzi del gruppo ad alta intensità educativa organizzato nell’ambito del progetto Outsiders e da alcuni ragazzi del Centro di Giustizia minorile, con la supervisione dell’esperto Carlo Erminio, del coordinatore Matteo Salaris e degli educatori Paolo Mandelli, Carla Carta e Deborah Vadalà della cooperativa sociale Panta Rei Sardegna (capofila del progetto).

Scrivi un commento


Ciascun commento potrà avere una lunghezza massima di 1500 battute.
Non sono ammessi commenti consecutivi.


caratteri disponibili

----------------------------------------------------------------------------------------
ALTRI ARTICOLI