La cultura fa novanta
16 Maggio 2010
Valeria Piasentà
Una bara sul portone del teatro alla Scala di Milano, è la tomba del melodramma dopo il decreto Bondi. A Firenze manifestano i lavoratori e in piazza Zubin Mehta dirige l’orchestra del Maggio Musicale, fra L’inno di Mameli e Va’ pensiero si suona Bella Ciao. Sulla facciata del Regio di Torino compare uno striscione con una scritta nera: ‘LA CULTURA FA PAURA’. E’ la risposta delle maestranze liriche alle politiche culturali governative. Saltano le prime in ogni teatro, a Torino l’atteso Barbiere ma il nuovo governatore della Regione, il leghista Roberto Cota che non perde occasione per presenziare ed esternare il suo parere, questa volta e prudentemente non ha rilasciato alcuna dichiarazione. Forse ricorda quando lui e Mercedes Bresso, il 14 febbraio in piena campagna elettorale, hanno partecipato a ‘Innamorati della cultura’ al Regio e il suo l’intervento è stato subissato dai fischi della platea strapiena «Torna a casa tu che fai parte di un governo che taglia i fondi per il teatro!», ma lui ha proseguito dritto: «Basta con questa idea che la Lega sia disinteressata alla cultura, io ho iniziato la mia carriera politica a Novara proprio come assessore con questa delega. Ho ben presente che la cultura oltre a essere importante per la formazione delle persone dà anche lavoro a migliaia di addetti. La differenza tra me e Bresso sta nel fatto che noi vogliamo una cultura per il popolo, non per i salotti». Già, l’idea di cultura cui fanno riferimento le maestranze del Regio non è la cultura populista che la Lega abbraccia allo scopo di ri-costrure una identità collettiva e radicata nel territorio. Quello di ‘identità territoriale’ è un concetto difficile anche da definire: se noi siamo la somma di varie identità (nazionale, professionale, di classe, religiosa o filosofica, generazionale, ecc.), è altrettanto vero che più l’uomo si smarca dalla condizione naturale e territoriale più costruisce forti e nuove identità, spesso distanti dalla cultura di origine. Gli artisti coltivano un senso di appartenenza professionale, soprattutto ballerini e musicisti, sottoposti dall’infanzia a una disciplina ferrea che diventa metodo di vita, fatta di studio e di esercizio quotidiani imprescindibili qualsiasi cosa accada intorno. Attori e cantanti lirici sentono la responsabilità di contenere lo strumento nel propio corpo, un tempo anche mutilato a favore della voce: ricordiamoci la tradizione dei castrati. Corpo in qualche modo espropriato da una funzione poggiata fra diaframma, gola e ‘maschera’, che ha in parte perso le sue identità e fisicità originarie appartenendo all’individuo quanto allo spazio fisico del teatro (un cantante ‘sente’ la spazialità architettonica attraverso l’emissione della voce) e a chi fruisce di quel canto in ogni teatro che finisce per diventare un universo espanso e un luogo di identità condivisa. Se il teatro è casa, la musica è patria. Come di progettisti e tecnici (scenografi, scenotecnici, macchinisti, ecc.) più territoriali, dalla loro sperimentazione continua sono arrivate invenzioni inattese come la macchina per il gelato inventata da Buontalenti alla corte dei Medici o il telefono, che lo scenotecnico e garibaldino Meucci usava per comunicare dalla graticcia al palcoscenico nel teatro La Pergola di Firenze. Nel mondo dei teatri lirici circola una umanità dalle provenienze geografiche e sociali più varie, come nei Conservatori e nelle Accademie italiane, un altro settore incomprensibilmente vessato dal potere politico italiano ma considerato un’eccellenza nel mondo intero, tanto che arrivano studenti da ogni parte per formarsi qui (gli stranieri iscritti al Conservatorio Verdi di Milano sono il 20%, all’Accademia di Brera il 30) a differenza delle nostre università: i primi atenei italiani classificati per qualità sono l’Alma Mater di Bologna e la Sapienza di Roma, posizionati solo al 199° e 200° posto. Un’esperienza di applicazione della prassi musicale per il superamento dei conflitti la fornisce il direttore Daniel Barenboim, che con Edward Said nel 1999 fonda la West-Eastern Divan Orchesta con giovani musicisti palestinesi e israeliani. Secondo Barenboim ‘l’idea di musica’ costituisce un modello di società ideale, con rapporti regolati dalla collaborazione, dall’ascolto e dalla reciprocità dell’impasto orchestrale, dove gli strumenti forti non devono soverchiare le emissioni dei più deboli «anche l’accordo più potente andrebbe suonato sempre in modo da consentire l’ascolto di tutte le sue voci interne; altrimenti manca di tensione e dipende esclusivamente dalla forza brutale, aggressiva. Bisogna poter sentire l’opposizione». Si tratta del classico concetto di armonia. (D.Barenboim La musica sveglia il tempo Feltrinelli) Quella del teatro musicale è una cultura internazionale che i nostri governanti mostrano di non comprendere, soprattutto non riescono a strumentalizzare; quindi lo striscione comparso sulla facciata del Regio parla una lingua sconosciuta al ‘comitato d’affari’ che governa oggi il Paese. E l’affermazione del ministro Brunetta nella lezione alla scuola di partito del PdL «a che servono gli scenografi» è tutt’altro che retorica: uno scenografo, come un violinista o un baritono, agli attuali governanti non serve proprio a nulla. Il 17 maggio a Bari è indetta una manifestazione delle 14 Fondazioni liriche: in quest’Italia – secondo l’attore Ascanio Celestini «un Paese quasi democratico» -dove fra Cinque e Seicento sono nati il melodramma e l’edificio teatrale con tutte le figure professionali, ora si distrugge scientemente un patrimonio culturale che ha contribuito a creare ricchezza, fama del Paese nel mondo, nonché l’identità del suo popolo. Ma attenzione: oltre gli aspetti economici, la vicenda svela la coesistenza nel tessuto sociale contemporaneo di due concezioni antitetiche di cultura regolate da rapporti di forza, fra cui non esiste capacità di ascolto tantomeno alcuno spazio di comunicazione.