Organizzatori di cultura
1 Giugno 2010Alfonso Stiglitz
Passeggiare tra le bancarelle del mercatino domenicale di viale Trieste a Cagliari può portare a interessanti scoperte, come quella di un libricino pubblicato nel 1948 dalla Soprintendenza Bibliografica per le province di Cagliari, Nuoro e Sassari dal titolo “Elenco delle Biblioteche della Sardegna, compilato dalla dott. Livia Maxia”. Un elenco di 374 biblioteche sparse su tutto il territorio sardo, con un patrimonio di oltre un milione di volumi; anche se, in realtà, quasi l’80% di quei volumi era concentrato nelle biblioteche dei tre capoluoghi di provincia dell’epoca, Cagliari, Sassari e Nuoro. È interessante notare la ragione sociale di questi istituti culturali sparsi su 146 comuni: solo 11 centri avevano biblioteche comunali, 80 centri quelle scolastiche alle quali vanno aggiunte il complesso delle biblioteche universitarie e degli istituti delle Università di Cagliari e Sassari, 53 centri avevano biblioteche definibili come autonome (private, di associazioni, ispettorati ecc.), 59 centri avevano biblioteche parrocchiali o religiose in genere. In altre parole possiamo dire che circa il 60% dei Comuni della Sardegna non aveva alcun tipo di Biblioteca e che il restante 40% dei paesi aveva poco più del 20% dei libri disponibili in Sardegna. Tenendo conto che all’epoca non c’erano Musei, a parte l’Antiquarium di Oristano e quelli nazionali di Cagliari e Sassari, e nessuna area archeologica attrezzata era visitabile, possiamo dire che le strutture culturali a disposizione dei sardi erano poche e mal messe. Non ho qui con me i dati sull’analfabetismo, ma credo che la realtà delle strutture culturali ne sia lo specchio fedele. La situazione attuale è ben differente e tale da darci il senso di un’autentica rivoluzione sociale, probabilmente più significativa, in senso positivo, rispetto al presunto progresso portatoci dall’industria chimica. Per dare qualche cifra, e si tratta di numeri in difetto, oggi abbiamo 180 strutture museali, comprendendo in questo numero anche le aree archeologiche, 346 biblioteche comunali, 86 centri di accesso informatico a libero utilizzo dei cittadini (CAPSDA), presso le Biblioteche; 256 sono le biblioteche coinvolte nel Sistema Bibliotecario Nazionale, con il loro catalogo collettivo è consultabile da casa propria tramite il web e che i quasi 3 milioni di documenti sono accessibili direttamente presso la Biblioteca o tramite il prestito interbibliotecario; il che significa che la pressoché totalità dei Comuni e, quindi, la quasi totalità della popolazione sarda ha accesso diretto alle informazioni, senza mediazioni confessionali o politiche. Questo ha generato una occupazione diretta di oltre 800 operatori, organizzati in cooperative culturali, ai quali va aggiunto il personale di ruolo delle autonomie locali (comuni e province) e della Regione, che non sono in grado di quantificare, così come il personale statale. In sostanza un’industria ad alti livelli occupativi, in grado di competere con le scalcinate industrie inquinanti. Un’industria della quale non si sente mai parlare, neanche quando, ogni fine dell’anno, gli 800 operatori a contratto rischiano di essere licenziati, 800 famiglie che potrebbero perdere il loro reddito. Questo rischio non è solo un problema sociale e un dramma personale per molti di loro, e già sarebbe grave, ma significa la caduta verticale delle strutture culturali che oggi, fin nel più piccolo centro, mantengono viva la nostra identità e costituiscono uno dei punti di forza contro lo spopolamento che colpisce molte parti del nostro territorio. Il tema può essere declinato da due distinti, ma intrecciati, punti di vista, quello economico e quello culturale, che è anche politico. Il primo ci propone una “industria” non inquinante, non eterodiretta, che non lascia veleni e forse per questo pericolosa più di tante altre; non dissemina, infatti, arsenico o uranio impoverito, ma informazioni. Verso di essa è sempre più palese la disattenzione del mondo politico e istituzionale, in primis la Regione che ha varato l’ennesima proroga triennale dei progetti, mantenendo e, conseguentemente, impoverendo le già limitate risorse. Ciò significa anche il mantenimento di progetti ormai vecchi e assenza di nuovi: in campo culturale ciò è sintomo di agonia. Avete mai visto una mobilitazione politica o la presa di posizione di nostri grandi intellettuali maîtres à penser? Il secondo punto di vista, quello culturale, lo decliniamo sempre con il nostro (nel senso di sardi) Antonio Gramsci che pensava a “un blocco intellettuale-morale che renda politicamente possibile un progresso intellettuale di massa e non solo di scarsi gruppi intellettuali” (Quad. 11, p. 16), un ceto di intellettuali in possesso della capacità di svolgere le funzioni organizzative e connettive. La crescita della domanda di cultura è stata dirompente negli ultimi decenni, ma viene sempre più dirottata verso la ricerca dell’evento eccezionale e della concentrazione dell’offerta; a livello di mass media e di politica, ma anche di compagine culturale, si privilegia l’intellettuale inteso come lo scrittore di successo o il critico ricco di apparizioni televisive, con una accezione del termine più riferita all’artista del principe o, peggio, al “buffone di corte”, che non a quel gruppo che si occupa stabilmente dell’organizzazione della cultura; si moltiplicano gli eventi e i festival, ma scarseggiano le ricadute, al di là delle vendite dei libri degli autori festeggiati. In altre parole il circuito virtuoso che dovrebbe collegare strutture culturali del quotidiano ed evento, come vetrina, favorendo il processo culturale delle comunità e in generale della Sardegna semplicemente non è vissuto come un elemento importante. L’impressione è che la cultura libera, nella quale, cioè, il cittadino abbia accesso diretto alle informazioni e possa osare, quale scandalo, crearsi da sé le proprie informazioni e il proprio percorso culturale interessi o poco o, meglio, venga vista come un elemento intrinsecamente pericoloso. Anni fa, analizzando il rapporto tra città e territorio nell’ambito delle dinamiche dell’offerta culturale, proponevo l’immagine di Gulliver (la città) prigioniero degli abitanti di Lilliput (il territorio), ancora valida nel rapporto tra alti intellettuali e intellettuali organizzatori delle strutture culturali. Una storia, quella di Gulliver, a lieto fine; viene liberato (finito il festival evento) e torna a casa sua carico di doni. Ma i due mondi rischiano di restare estranei, distinti. Da qui le frustrazioni di quel mondo culturale che ha portato la Sardegna a notevoli cambiamenti dalla situazione fotografata nel 1948, oggi oggetto di striscianti e pervasivi smantellamenti e che tentando di coniugare Gulliver con Lilliput rischia di non ritrovare il proprio ruolo sociale.