Il dolore delle mimose

16 Marzo 2008

8 MARZO
Federica Grimaldi *

Da parecchi anni la “festa” dell’8 marzo riviveva nel rito dello scambio delle mimose, e di auguri accompagnati spesso da un sorriso divertito e ironico, quasi a sottolinearne l’anacronismo della celebrazione, non più necessaria, di risultati già raggiunti. La recente messa in discussione di questi risultati restituisce alla celebrazione dell’8 marzo invece, una duplice, forte valenza: quella di una giornata per ricordare, e quella di una lotta che continua. Ricordare che nella civilissima Italia le donne votano da appena 60 anni. Ricordare quanto sia costato a tante donne conquistare il diritto ad autodeterminarsi, ad essere percepite come esseri dotati di una propria soggettività e partecipi attivamente alla vita pubblica, e non più solo come oggetti passivi e bisognosi di tutela tra le mura domestiche. Abbiamo forse dimenticato che fino al 1996 la violenza sessuale conservava l’impronta – propria del codice penale fascista del 1930 – di reato contro la morale pubblica e il buon costume, e non contro la persona? Quasi fosse un’offesa arrecata da parte di un uomo nei confronti di un altro uomo o di un clan familiare, di fatto “proprietario” di quella donna. E non è certo un caso che nella nostra cultura recente, ancora largamente impregnata di cattolicesimo, permanga ancora l’eco della parificazione della donna a mero oggetto: “non desiderare la donna d’altri” e “non desiderare la roba d’altri”.
E proprio la ritrovata consapevolezza di quanto dolore e solitudine siano costate queste conquiste, e di quanto esse siano ancora recenti e discusse, ha portato in piazza, questo 8 marzo, migliaia di donne pronte ad gridare che ci sono, e sono vigili, che sono disposte a lottare con ogni mezzo per tutelare il diritto di scegliere e per ricordare a un Vaticano che oggi torna a mostrare il suo vero volto che non cederanno di un passo.
Nella lotta per l’uguaglianza le donne, in tutto il mondo, hanno avuto molta meno fortuna di tante altre categorie discriminate. Differentemente da quanto accade per le battaglie femministe, le lotte per l’emancipazione dei neri in America sono state portate avanti non solo dai neri, ma da donne e uomini di ogni etnia e colore. Chiunque, dotato di una cultura media e di “sani principi democratici”, storce il naso di fronte ad atteggiamenti razzisti. Troppo spesso, invece, condotte sessiste vengono tollerate come fossero stupidaggini minori non portatrici di conseguenze pericolose. Ma quelle conseguenze noi le abbiamo ogni giorno davanti agli occhi, se guardiamo quei contesti sociali in cui le donne ancora pagano con la vita il solo essere nate donne, e in cui una legge patriarcale, maschilista, e spesso confessionale impone alle donne, e solo a loro, regole lesive della dignità umana. In Iran o in Afghanistan, paesi in cui, solo fino a non molti anni fa, le donne studiavano, lavoravano e camminavano libere per le strade, quelle stesse donne vegetano, oggi, schiacciate da un velo che insieme al loro corpo calpesta la loro libertà e dignità umana. A Ciudad Juarez, città a nord del Messico, nello stato di Chihuahua, solo decidere di andare a lavorare può costare la vita. A Ciudad Juarez decine di giovani donne, lavoratrici mal pagate delle maquiladoras, vengono rapite e uccise dopo aver subito stupri, torture e umiliazioni.
Come in tanti altri luoghi, a Ciudad Jarez la donna è un oggetto che si può possedere, e perciò anche picchiare e violentare, perché la cultura patriarcale dominante permea interamente gli ambiti della vita politica e sociale, troppo spesso appoggiata da dottrine religiose che – lasciando intendere, più o meno esplicitamente, che la donna è, per sua natura, peccatrice – sono ree di giustificare gli abusi, le discriminazioni, e l’emarginazione delle donne lavoratrici, che rifiutano di rimanere costrette negli schemi familiari tradizionali. La donna emancipata, secondo la visione maschilista e patriarcale dominante in molte società (anche cosiddette evolute) smette d’avere il carattere “puro” della moglie e madre, per lasciare spazio ad una visione della donna “sporca”.
Così, mentre la donna è sempre più consapevole della propria importanza, nei luoghi come Ciudad Juarez può pagare con la vita l’acquisita consapevolezza, perché quella società maschilista non è disposta ad accettare la nuova e crescente autonomia delle donne, rappresentata, innanzitutto, dalla loro indipendenza economica e sessuale.
Sotto molti aspetti la situazione italiana non è poi così distante, se consideriamo che la prima causa di morte per le donne è – oggi – la violenza subita da parte di padri, patrigni, mariti, amanti ed ex, che non accettano di perdere la loro proprietà.
Pensieri, questi, il cui solo emergere genera in ogni donna consapevole una rabbia giusta che potrebbe anche diventare legittimamente cieca. È difficile, però, ritenere efficace la scelta di quella parte del movimento femminista che, con l’intento di dimostrare che le donne non valgono meno degli uomini, finisce per affermare una presunta superiorità delle donne in quelle che vengono comunemente considerate le caratteristiche positive dell’essere umano. Le donne divengono così più cooperative, più pacifiche, più riflessive, meno aggressive e violente. Insomma tutto il contrario di come va il mondo. Ma questa presunta superiorità – quasi fosse di natura biologica – nasconde in sé tutte le insidie connaturate in ogni affermazione di superiorità ontologica di una categoria sulle altre.
Negare agli uomini di lottare al fianco delle donne, relegandoli a un ruolo secondario e di appoggio, è un errore che porta alla autoghettizzazione, ed alla rinuncia di un più consolidato livello di affermazione.
La civiltà di un popolo ha indubbiamente nel proprio grado di emancipazione femminile un suo importante parametro rivelatore. È fondamentale, perciò, che le lotte per l’uguaglianza dei diritti fra donne e uomini si combattano insieme, perché sono lotte di civiltà che riguardano un intero popolo e non una parte di esso.

* Coordinatrice “Sinistra Democratica” – Provincia di Cagliari

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