E se tra Hillary e Obama spuntasse Al Gore?
16 Marzo 2008
Gianluca Scroccu
“Democrazia in America”? Così si intitolava un bellissimo saggio di Oliviero Bergamini (Ombre Corte, 2004) sul sistema politico e sociale americano.
Dopo otto anni di presidenza di G. W. Bush sembra in effetti che qualcosa si stia muovendo e in questo senso queste elezioni presidenziali di novembre paiono davvero portare a qualche novità. Del resto il tema del cambiamento ritorna spesso nel discorso politico statunitense ogniqualvolta il paese sembra attraversare una situazione di crisi o di stagnazione.
Se in campo repubblicano è emersa la candidatura di John McCain (l’uomo distrutto attraverso calunnie vergognose dal guru di Bush Karl Rove nelle primarie del 2000) è in campo democratico che i giochi sono apertissimi. Sarà Hillary Clinton ad ottenere la nomination o piuttosto l‘audace speranza rappresentata dal ciclone Barack Obama?
La gara, in effetti, è tuttora nel vivo. Eppure nel 2007 sembrava che nulla potesse ostacolare la marcia di Hillary verso la nomination e il successivo possibile avvio di una seconda stagione dei Clinton (ma questa volta in ruoli invertiti). Hillary, la prima donna candidata alla presidenza, la secchiona superpreparata, la donna tenace che da senatrice ha tenuto comportamenti contradditori, come con il suo voto favorevole alla guerra in Iraq.
Poi è arrivato Obama, il candidato nero che suscita entusiasmi tra tutti gli elettori democratici e gli indipendenti, senza distinzione.
Se pensiamo solo a John Kerry non possiamo dimenticare come quattro anni fa fosse più la base democratica e il mondo della cultura a premere sulla sua campagna, piuttosto che il debole carisma del senatore. Barack, invece, suscita entusiasmi e questo al di là delle sue proposte programmatiche che appaiono ancor indeterminate.
Obama è un fenomeno aiutato anche dai media e da Internet e che ha saputo usare la grande agorà virtuale dei blog, uno spazio aperto di discussione dove risulta possibile discutere senza i ritmi e le cautele della politica ufficiale. Nato ad Honolulu, da madre bianca del Kansas e padre nero del Kenya, è vissuto in Indonesia ed è arrivato negli Stati Uniti da adolescente. La sua esperienza di nero americano è quindi assolutamente atipica e questo gli ha permesso di essere un potenziale candidato per i tanti che lo sentirono pronunciare il keynote speech alla convention democratica di Boston del 2004.
In un’America in cui la politica appare sempre più dinastica e comunque esercitata sempre dalle stesse persone Obama è certamente una positiva eccezione che invita al rinnovamento attraverso il coraggio di chi mette la propria faccia per provare a cambiare le cose. È vero che in realtà i programmi dei due sfidanti democratici non appaiono poi così differenti; sul tema cruciale della sanità entrambi sostengono un’assistenza sanitaria totalmente gratuita per i bambini, la copertura sanitaria generalizzata da ottenere principalmente attraverso la cancellazione dei tagli alle tasse per i redditi sopra i 250 mila dollari introdotti da Bush, o ancora l’integrazione con fondi delle imprese delle assicurazioni sanitarie. Differenze sostanziali sembrano individuabili invece in politica estera, dove Obama, come sostiene la sua ex consulente Samantha Power (autrice di una bellissima storia dei genocidi del Novecento edita in Italia da Baldini&Castoldi), intende portare via in meno di due anni i soldati dall’Iraq e mettere al centro il valore dell’interdipendenza nelle relazioni internazionali, anche tentando il dialogo con paesi nemici come Iran e Siria.
Sia Hillary che Obama sono comunque consapevoli di poter sfruttare i disastri della guerra in Iraq e in generale il drammatico fallimento della presidenza Bush, a partire dai temi economici (vedi solo il problema dei subprime). Del resto la guerra in Iraq, come ha ricordato il premio Nobel Joseph Stiglitz in un’intervista pubblicata da “La Stampa” lo scorso 6 marzo, è la vera causa dell’aumento astronomico del prezzo del petrolio.
Tutti elementi che stanno portando gli States ad affrontare una delle fasi più difficili della loro storia, con l’entrata in una grave crisi, da una parte, del loro capitale sociale, ovvero delle norme di reciprocità e fiducia reciproca tra i cittadini alla base del tessuto civico americano (fondamentale in tal senso l’analisi del grande sociologo e politologo Robert Putnam nel suo “Bowling Alone”, tradotto in Italia da Il Mulino con il titolo di “Capitale sociale e individualismo”); dall’altra, con la decadenza di quella vocazione imperiale sempre meno centrale nello scacchiere internazionale anche in virtù dell’ascesa di potenze economiche e politiche come Cina e India (per una storia della politica estera americana si veda l’ottimo lavoro di Mario Del Pero dal titolo “Libertà e impero. Gli Stati Uniti e il mondo 1776-2006”, appena edito da Laterza).
Sono del parere, però, che i democratici il miglior candidato l’abbiano in una terza persona, ovvero Al Gore. Come è stato riconosciuto anche da Michael Tomasky (vedi l’articolo “Citizen Gore”, ripreso sul numero di febbraio di “La Rivista dei libri”), Gore non è più l’uomo sciatto e timoroso del 2000, dove pure, di fatto, vinse le elezioni. È un premio Nobel che ha messo da parte la cautela e ha imposto sull’agenda globale un tema come quello del global warming. Inoltre ha scritto un libro importante come “L’assalto alla Ragione”, (edito in Italia da Feltrinelli) che rappresenta un’analisi assolutamente concreta dei problemi della democrazia americana perché affronta alla radice alcuni dei nodi del dibattito politico contemporaneo, a partire dal più importante: la crisi della democrazia determinata dall’offuscamento della politica guidata dal principio della ragione. E pagine molte significative di questo saggio sono dedicate anche al ruolo di condizionamento sulle coscienze che viene esercitato a livello mondiale dalla televisione, maestra nel formare, ma soprattutto plagiare, il senso comune portando in tal modo ad un arretramento sempre più consistente del confronto delle idee e del dibattito tra i cittadini.
Non è detto, se i due candidati dovessero logorarsi e annullarsi in una sostanziale parità dei delegati, che alla Convention di agosto non spunti il jolly Gore. Un suo ticket con Obama, obiettivamente, non sarebbe male. Al Gore è sicuramente l’uomo politico dell’anno. Dopo l’Oscar per “Una Scomoda Verità” e la vincita del Premio Nobel della Pace ha riconquistato una statura internazionale di primissimo livello. E così, per gli scherzi che la storia è solita fare, dopo la sconfitta, assai dubbia, alle presidenziali del 2000, si invertirebbero le parti: da un lato si avrebbe un George W. Bush avviato ad una mesta conclusione della sua pessima e vergognosa presidenza; dall’altro l’ex vicepresidente di Clinton, che potrebbe aprire una nuova stagione per la politica statunitense.