Risparmi di memoria
1 Settembre 2010Giulio Angioni
Identificabile per caratteri propri, esiste una specie “popolare” e “spontanea” di scritture: l’autobiografia, che si è estesa in quantità da quando la scrittura è diventata via via un’abilità “obbligatoria” di molti se non di quasi tutti. L’Europa in questi ultimi decenni ha visto sorgere dappertutto certi apparati di raccolta di questi prodotti della scrittura memorialistica, come è in Italia il caso dell’Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano, fondato da Saverio Tutino nel 1984 e che oggi conserva circa seimila testi tra diari, memorie e raccolte di epistolari, schedati e conservati in un catalogo on-line. Alcuni anni fa siamo stati colpiti dal caso di “Terra matta” (Einaudi 2007), autobiografia di Vincenzo Rabito, semianalfabeta siciliano, che ha avuto la ventura di arrivare dall’Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano al catalogo di un grande editore. Ricordo due casi sardi di questa specie di memorialistica scritta che mi paiono interessanti, collocabili forse ai due estremi opposti per grado di istruzione scolastica. E’ noto in Italia il caso di “Padre padrone: l’educazione di un pastore”, di Gavino Ledda (Feltrinelli 1975). Meno noto è un analogo caso sardo, Anzelinu di Angelo Carta, che quando uscì da Einaudi nel 1977 indusse a individuare un filone di memorialistica ruspante e periferica.
Ma com’è che una ignota e finora inedita Maria Grazia Cubeddu di Cuglieri, casalinga quarantenne di paese con quattro figli, in ospedale nel terribile inverno del 1956, invece di affidarsi solo ai medici e al Signore, a Capodanno prende carta e penna e si mette a raccontare la sua vita in versi sardi tipo gosos? Forse perché, alla Garcìa Màrquez, la viviamo tutti per raccontarla, la nostra vita, a dispetto dei critici e dei canoni letterari? O perché raccontarla è il modo più efficace di darle senso e di farsi una ragione e una speranza? Risposte in forma di domanda per capire in generale la particolare scelta di Maria Grazia Cubeddu, che rimane eccezionale. Infatti Maria Grazia la sua vita non l’ha raccontata in chiacchiera muliebre alle compagne di sventura in ospedale, o ai parenti in visita, ma per iscritto, a se stessa forse prima ancora che a improbabili lettori, che tuttavia ci sono stati e ora magari ci saranno perché Giovannapaola Soriga forse riesce a pubblicarlo, avendolo studiato, colpita anche dall’eccezionalità dell’evento: una contadina che nel mezzo del cammin di nostra vita si mette a raccontarsi in versi la sua vita. Come a ribadire con questa sorta di eccezione che la propria vita per ciascuno è sempre degna di racconto e di memoria, e che la vita di ciascuno può essere per tutti materia di racconto, e magari diventare anche testo poetico, arte della parola messa in forma già canonizzata nella tradizione orale.
A inquadrare in una norma universalmente ed elementarmente umana la scrittura di Maria Grazia Cubeddu di Cuglieri potrebbe anche bastare la considerazione antropologica che riuscire a dare alle vicende della propria vita la forma di racconto è un modo ovvio ed efficace di dare loro senso e valore. Cosa che però una qualunque donna di qualsiasi tempo e luogo sa fare e ha sempre fatto, oralmente. Ma che tuttavia non spiega, tanto meno filologicamente, l’eccezionalità del caso di tzia Maria Grazia Cubeddu. La particolare performance narrativa di tzia Maria Grazia, seppure eccezionale, è buona prova e conseguenza di una caratteristica di molte culture tradizionali, comprese quelle subalterne europee, che fino a pochi anni fa (e a volte ancora oggi in modi residuali), fruivano di una sorta di competenza collettiva delle forme di comunicazione e di espressione, comprese quelle dell’arte della parola, che insomma erano patrimonio collettivo, onniscienza sociale, per lo meno nei modi dell’oralità, dalla ninna nanna al canto funebre, dalle filastrocche infantili ai canti chiesastici. Competenza collettiva che nel caso di Maria Grazia, semianalfabeta, si esplica con quel residuo irriducibile di eccezionalità che è la forma scritta, che alla performance orale effimera sostituisce la fissazione durevole del testo scritto,a sfida e garanzia di vittoria sul male attraverso il dire per comprenderlo, e magari di vittoria sul tempo.
E dunque rendere fruibile a un pubblico vasto di lettori il testo di tzia Maria Grazia Cubeddu, sarebbe come pubblicare l’impossibile scoperta di un manoscritto inedito di pugno di un reale Bertoldo o di una reale Lucia Mondella, in aggiunta e paragone rispetto alle finzioni di Giulio Cesare Croce e di Alessandro Manzoni.
Un effetto del genere può fare l’irruzione nella scrittura e nella fruizione a stampa del frutto eccezionale del normale bisogno di racconto di tzia Maria Grazia Cubeddu, alla metà del Novecento. E forse già anche per lei, nel freddo inverno del ’56, la composizione laboriosa ma spontanea di questo testo poetico doveva essere una sorpresa per noi posteri, oltre che essere per lei necessità di senso, ma soprattutto felice intuizione di una efficace manutenzione del dolore mediante il suo essere ben detto, e dunque per iscritto.