La costruzione dell’uguaglianza
1 Settembre 2010Mario Cubeddu
“Il primo che, avendo cinto un terreno, pensò di affermare: questo è mio, e trovò persone abbastanza semplici per crederlo, fu il vero fondatore della società civile. Quanti delitti, guerre, omicidi, quante miserie ed orrori non avrebbe risparmiato al genere umano colui che, strappando i piuoli e colmando il fossato, avesse gridato ai suoi simili: “Guardatevi dall’ascoltare questo impostore; siete perduti se dimenticate che i frutti sono di tutti, e che la terra non è di nessuno!”
Non c’è tema tanto affascinante quanto l’origine della disuguaglianza tra gli uomini, quella di cui parla Jean Jacques Rousseau nella celeberrima frase che mi sono permesso di riportare. Per un sardo di paese la disuguaglianza si misurava, e in parte si misura ancora, nella differente estensione di terra che una famiglia possiede. Oggi è un grave errore, certo, ma in molte cose la percezione di un fatto conta anche più della sua realtà effettiva. La differenza di fortuna tra gli uomini ha provocato da noi mali tremendi, sofferenze morali e materiali infinite per i deboli, aggressioni feroci ai beni e ai corpi di esseri umani che venivano ritenuti privilegiati. “Perché le diseguaglianze rendono le società più infelici?”.
Questa domanda è posta a spiegazione del titolo misterioso di un libro di grande interesse, “La misura dell’anima”, pubblicato da Feltrinelli nel novembre del 2009. L’opera è stata scritta da Richard Wilkinson e Kate Pickett, due epidemiologi che insegnano in università inglesi. La tesi che essi sostengono è semplice ed apparentemente banale: la diseguaglianza tra gli uomini è all’origine di gran parte dei mali che affliggono le società contemporanee. L’affermazione è scontata per le nazioni più povere di Africa, Asia ed America. L’attenzione dei due studiosi è rivolta però a quelle realtà che hanno raggiunto “l’apice del progresso economico e materiale”. In sostanza parlano dei problemi che affliggono le cosiddette società del benessere. In esse si presenta, ad esempio, quella che è una malattia tipica dei poveri di oggi: l’obesità derivata dall’ingerire una quantità eccessiva di cibo, l’elemento scarso per cui gli uomini hanno sofferto e combattuto per migliaia di anni. Il povero nei paesi ricchi è grasso, mentre il ricco è magro e asciutto. Il contrario di ciò che avviene nei paesi del sottosviluppo. Nei paesi sviluppati molti problemi si presentano in modo peculiare e la loro gravità diventa tanto più intensa quanto più essi sono segnati dalla diseguaglianza: aumenta il disagio mentale e il ricorso alle droghe, peggiora la salute dei cittadini e diminuisce la loro speranza di vita, aumenta l’obesità, in primo luogo tra le persone più deboli, diminuisce il rendimento scolastico, aumenta la violenza diffusa e il numero di persone incarcerate.
Gli autori hanno verificato che questi problemi si presentano regolarmente in forma più grave nelle società caratterizzate da un grado di disuguaglianza maggiore. Più aumenta la distanza tra ricchi e poveri in una società e più questa diventa malata e infelice. La disuguaglianza compromette non solo la fiducia tra gli esseri umani e la loro capacità di vivere serenamente con i propri simili, ma condiziona profondamente la stima di sé e la capacità di realizzarsi dei singoli. La qualità della vita, inoltre, peggiora non solo per i poveri, ma anche per i ricchi, quasi a dimostrare quanto la differenza di status sia innaturale. Si è verificato che una persona proveniente da un ambiente povero o segnato da particolarità etniche, mettiamo un sardo, se si esprime in una condizione normale e serena è portato regolarmente a conseguire risultati migliori di quando si trova in una situazione competitiva. Una maestra riesce a convincere i suoi alunni che quelli che hanno gli occhi azzurri sono più bravi degli altri e subito i risultati di quelli che hanno gli occhi scuri peggiorano.
Quando invece dice che i ragazzi con gli occhi castani sono migliori, crollano le prestazioni dei ragazzi dagli occhi chiari. In una Sardegna dalla fortissima dispersione scolastica e dai pessimi risultati nelle verifiche di competenza linguistica e matematica, che peso hanno la realtà e la percezione della diseguaglianza? Per quanto riguarda l’Italia nel suo complesso, la sua posizione è intermedia tra chi presenta le minori differenze sociali, il Giappone e i paesi delle socialdemocrazie scandinave, e quelli con le differenze più marcate, Portogallo, Gran Bretagna e Stati Uniti. I due autori rispondono poi in modo sostanzialmente positivo alla domanda fondamentale: si può affermare che la diseguaglianza è la vera causa dei mali di cui soffrono le società moderne, e non solo uno dei fattori tra tanti?
Non evitano, infine, di affrontare il problema più spinoso: cosa fare per diminuire e progressivamente eliminare la diseguaglianza di condizioni economiche e sociali nelle nostre società? Il loro discorso comprende una critica radicale alla filosofia dello sviluppo, che appare per molti aspetti funzionale al mantenimento della diseguaglianza.
L’utopia che i due autori propongono è pacifista, gradualista, imperniata su piccole e progressive conquiste. Un lento movimento dal basso che parta dalla presa di coscienza che tornare all’uguaglianza originaria degli uomini è il modo migliore per superare le ansie e i tormenti dell’anima contemporanea e allo stesso tempo rendere migliore la vita di tutti. “La crescita economica non è in grado di garantire ulteriori miglioramenti nella qualità della vita: le questioni prioritarie sono oggi il senso di comunità e la maniera di rapportarci gli uni con gli altri.” Tra i tanti pregi di questo libro uno dei maggiori è la semplicità e la chiarezza di un testo che vuol farsi capire da tutti.
5 Settembre 2010 alle 20:41
Mi viene da dire, visto che hai incominciato tu con la scusa di questo libro e di Rousseau, che le idee più vecchie sono anche le più collaudate, e le più utili. E che se tutto è stato già detto, tutto resta ancora da dire. Se in questo campo dell’abolizione della disuguaglianza e della subalternità molto è già stato proposto e tentato (se non siamo fuori tema, per esempio, a menzionare i vari socialismi detti e fatti degli ultimi due secoli e specie quello sovietico del Novecento), molto resta ancora da dire e da fare. Ma è già molto che si continui o ricominci a dire, anzi a ridire. Io, più alla casalinga, la stessa cosa dei due inglesi o la stessa cosa di Rousseau l’avrei detta con Gramsci, dove c’è solo l’imbarazzo della scelta. Ma il ghilarzese in questi lidi non è più e non è ancora di nuovo di moda, nemmeno per sa di’ de sa Sardigna.
8 Settembre 2010 alle 22:52
Caro Giulio, perchè non pensare che i due studiosi anglosassoni abbiano letto Gramsci e imparato da lui, come è in realtà, invece di contrapporre le loro parole a quelle del nostro amato ghilarzese? Io da anni non sentivo parlare in termini così generali ed umani, non solo “politici”, di questo tema. Ma neanche in termini politici si sente parlare di uguaglianza, come se fosse scontata la differenza tra gli uomini. Tanto più in un paese per molti versi ancora feudale come l’Italia. Il tema mi interessa molto da sardo, visto che diciamo sempre che il nostro è un mondo senza latifondo, matriarcale, eccetera eccetera, poco segnato dalla diseguaglianza. Invece i mali diffusi, violenza, scarsi risultati scolastici, sfiducia e infelicità, dimostrano il contrario. Quale è quindi l’aspetto specifico della diseguaglianza sarda, un misto di distanze etniche e sociali?
11 Settembre 2010 alle 14:19
Interessantissima recensione di un libro che non ho ancora letto, ma certamente fuori moda, visto l’argomento di cui tratta. Anch’io, seppur nessuno, risponderei positivamente alla questione posta dagli autori “si può affermare che la diseguaglianza è la vera causa dei mali di cui soffrono le società moderne, e non solo uno dei fattori tra tanti?” e ho sempre affermato, per esperienza, che la Sardegna non è differente da altri paesi o dal resto dell’Italia, non differenti i sardi da altre popolazioni. Qui, come altrove, gli “svantaggiati”, gli “sfortunati”, quelli appartenenti alle classi sociali più povere se riescono ad emanciparsi, ad emergere, ad affermare se stessi in una posizione sociale appena migliore di quella dei propri genitori, lo fanno, davvero, a costo di fatiche colossali e sempre con la sensazione, ereditata da generazioni, che tutto possa, da un momento all’altro sfuggire di mano, crollare e riportare tutto dentro gli schemi, quelli di chi ha diritto per nascita e quelli di coloro che per nascita nessun diritto dovrebbero rivendicare.
Credo che non sia neppure estaneo a questo discorso ricordare la distruzione del contratto nazionale dei metalmeccanici ad opera di quel padronato concreto e feroce nell’ideologia e nelle azioni che in questi giorni detta legge in Italia.