Morti bianche, non decide il fato
16 Aprile 2008
Antonio Mura
La notizia quotidiana di incidenti e morti sul lavoro è diventata una catena interminabile. Si tratta di un fenomeno che deve essere valutato ed affrontato come rischio incombente sui lavoratori nell’arco dell’intera giornata lavorativa. Un rischio sempre presente che per la sua natura ha determinato la nascita dell’assicurazione contro gli infortuni. Più recentemente, nel 1994 il decreto legislativo n. 626, in attuazione di direttive CEE, ha dettato norme riguardanti il “miglioramento della sicurezza e della salute dei lavoratori sul luogo di lavoro”. Sono norme che in un paese civile devono rappresentare una garanzia assoluta per l’incolumità del lavoratore. Esse si rivelano però scarsamente applicate. Viene a mancare la tutela della salute, della sicurezza e della vita del lavoratore in tutti gli ambienti di lavoro. Il pericolo va esaminato sotto un duplice aspetto: quello del rispetto integrale delle norme, compresa la vigilanza degli Istituti preposti, e quello della normativa che regola i contratti di lavoro a partire dal pacchetto Treu sino alla L. 30/2003 e relativo decreto di applicazione. Sul primo aspetto è indubbia la necessità del massimo impegno per la applicazione di tutte le misure che garantiscano la sicurezza e perché il controllo degli enti preposti sia effettuato. La causa di quanto accade spesso è da imputarsi alla superficialità con cui si valuta il rischio dovuto alla strumentazione impiegata nei posti di lavoro. Se si esaminano le cause degli infortuni ci si rende conto che essi sono causati molto spesso da fattori che si potevano eliminare con la semplice diligenza. É di tutta evidenza che la prevenzione comporta un costo; non sostenendolo si gioca con la vita del lavoratore. Questa valutazione è confermata dalla reazione degli industriali i quali anziché applicare il pacchetto per la sicurezza hanno invece proposto l’utilizzo delle somme in attivo nel bilancio dell’INAIL. Il Ministro Damiano lo scorso dicembre ha dichiarato che le buone leggi non bastano a superare l’emergenza rischio sul lavoro. Ma se le leggi sono buone ci si deve chiedere cosa è mancato e quali sono le certezze per la loro totale applicazione Ci si deve chiedere se ogni datore di lavoro adempie all’obbligo di “informazione, formazione, consultazione e partecipazione dei lavoratori ovvero dei loro rappresentanti, sulle questioni riguardanti la sicurezza e la salute sul luogo di lavoro”. Ciò significa che chi avvia un’attività imprenditoriale deve essere il primo a conoscere tutti i potenziali rischi che si possono correre durante l’attività lavorativa. E perciò deve designare il responsabile del servizio di prevenzione e protezione interno o esterno all’azienda, gli addetti al servizio di prevenzione e protezione interno o esterno all’azienda e al tempo stesso deve nominare, con le modalità previste dalla legge, il medico competente in materia di medicina del lavoro. Purtroppo questi obblighi molto spesso rimangono aspetti formali. Perciò è indispensabile la mobilitazione delle organizzazioni sindacali affinchè il rappresentante dei lavoratori abbia gli strumenti per sorvegliare sulla sicurezza del lavoro compresa la totale autonomia da eventuali pressioni che possono venire dal datore di lavoro. Alcuni dati possono dare la dimensione del rischio che ogni giorno corre il lavoratore sul posto di lavoro. La Fillea-Cgil ha denunciato un numero di 235 morti nell’edilizia nel 2007 di cui il 16% sono immigrati. La stessa organizzazione sindacale ha dichiarato che si tratta di un numero “appena migliore” di quello registrato nel 2006 (258 incidenti mortali), ma comunque ancora altamente critico”. Il sindacato sottolinea come gli immigrati, i lavoratori precari o in nero, risultino i più deboli ed esposti ad infortuni, oltre essere i meno pagati e inquadrati a livelli più bassi. Nel 2006 si sono registrati 1302 incidenti mortali complessivamente, di cui 34 in Sardegna. Il settore industria e servizi è quello che registra il numero più alto, 1189, pari a 89,78% del totale. Una media altissima in funzione delle giornate lavorative, si è arrivati a circa 5 morti sul lavoro al giorno, in Sardegna oltre tre morti al mese. Secondo le stime dell’INAIL nei primi mesi del 2007 gli incidenti mortali sono scesi del 2,1%: tra gennaio e settembre i morti sono stati 774, vale a dire il 114 in meno rispetto allo stesso periodo del 2006. Sono sempre troppi e rappresentano un numero insopportabile. Se si guarda al totale degli infortuni le cifre salgono vertiginosamente: spesso il lavoratore subisce menomazioni fisiche tali da non essere più in grado di impegnarsi in attività lavorativa. Il totale degli infortuni registrati in Italia nel 2006 è di 927.998, nel 2005 sono stati 939.968. In provincia di Cagliari si sono registrati, al 30 novembre 2007, 8.561 infortuni di cui 16 mortali al 19 dicembre. Numeri assurdi che non possono essere attribuiti a casualità. I dati citati sono ovviamente quelli denunciati ma è presumibile che un esame, seppure approssimativo, della presenza di lavoro nero possa fornire dati sensibilmente più elevati. È necessario conoscere quali siano stati i controlli in tutto il territorio nazionale così come è importante conoscere le reali possibilità di tutela che riesce a mettere in pratica il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza. Un altro elemento che ha determinato insicurezza nei posti di lavoro è costituito dall’elevato numero di contratti di lavoro in applicazione della delega della L. 30/03. In esso sono presenti contratti di lavoro precario che, per la loro stessa natura, non offrono affidabilità e garanzia in materia di sicurezza. È sufficiente qualche esempio per chiarire il senso di queste affermazioni. Essere avviati al lavoro presso un azienda dovrebbe comportare la conoscenza di quella realtà. Appare del tutto evidente che quando il lavoratore viene avviato ad una attività per periodi di breve durata, i tempi per l’apprendimento delle cautele contro gli infortuni sono ridotti se non del tutto inesistenti, soprattutto quando le aziende operano con strumentazione tecnologica sofisticata. Una situazione analoga si ha nel rapporto di “lavoro condiviso” in cui due o più lavoratori sono destinati alla realizzazione di un progetto e sono responsabili in solido del risultato con tempi e modalità decisi dal datore di lavoro. In questo caso le condizioni di insicurezza vengono riversate per intero sui lavoratori.